Tratto
da: Le
Grandi Profezie Autore Franco Cuomo
Newton & Compton Editori
Il
crepuscolo degli dèi
Vi furono sibille nordiche, le quali predissero
intorno all’anno Mille ciò che nella loro tradizione è
detto il “crepuscolo degli dèi”. E l’apocalisse degli scandinavi, che segna la fine rovinosa del Midgard, il “recinto di mezzo”,
creato da Odino per ospitare gli uomini. Anche questa
catastrofe prelude, come le altre profezie escatologiche, al sorgere di una
nuova età dell’oro.
Il resoconto dettagliato di quest’apocalisse
vichinga è nell’Edda, raccolta di
canti scritti tra il IX e il XIII secolo, ma scoperti
soltanto nel 1645 dal vescovo islandese Brynjolf Sveinsson in un antico codice
oggi conservato presso la biblioteca reale di Copenaghen (Codex regius 2365). Il primo ditali testi
è attribuito a una profetessa non altrimenti definita (s’intitola Predizione della Veggente, in antica
lingua norrena Volospà), la quale
esordisce imponendo il silenzio e asserendo di essere cresciuta presso il
popolo dei giganti. Da questi avrebbe appreso la verità circa l’origine e la
fine dell’universo. Dal supremo dio Odino avrebbe poi ricevuto il dono di
predire il futuro, divenendo così una volva,
cioè indovina.
L’apocalisse vichinga dell’Edda
Il
racconto della Volospà comincia
dall’apparizione del gigante Ymir, primo abitante del cosmo, quando ancora non
esistevano né terre, né acque, né cielo, e procede
attraverso la creazione del mondo degli uomini da parte di Odino, la nascita
delle figlie dei giganti (le tre Nome: Urd,
Verdandi e Skuld) incaricate di sovrintendere alle questioni umane, l’irrompere
del male sulla terra attraverso la rivalità tra le stirpi divine degli Asi
(discendenti di Odino) e dei Vani.
Il “crepuscolo degli
dèi” è annunciato come prossimo e inevitabile. Gli dèi scompariranno
combattendo contro i mostri, e solo alcuni di essi
rinasceranno in un mondo rigenerato dal sangue. Il sole si oscurerà, le stelle
cadranno giù dal cielo, la terra sprofonderà negli abissi marini.
Segni
premonitori del cataclisma finale saranno, come per ogni altra apocalisse, i
peccati degli uomini:
[...]
La colpa dilagherà sulla terra, i fratelli si macchieranno di sangue fraterno,
i figli leveranno mani omicide contro i padri, incesto e adulterio saranno
abituali, non vi sarà pietà per l’amico.
Non
mancheranno segni legati al sovvertimento delle stagioni. Si succederanno tre
inverni, uno più desolante dell’altro, senza interruzione. Nevicherà fino a quando la terra sarà completamente gelata, e allora i mostri
spezzeranno le loro catene per assalire gli dèi.
Si aggirerà nell’oceano il Gran Dragone
[anche la nomenclatura evoca precedenti biblici] e muovendosi farà straripare
le acque sulla terra, provocando inondazioni e terremoti [...]
L’armata dei geni malvagi combatterà contro gli dèi.
Ma
Odino reagirà, ponendo un argine ai loro malefici, anche se nello scontro
soccomberà insieme alla maggior parte degli eroi schierati al suo fianco. La battaglia sarà tremenda, però alla fine una
nuova terra risorgerà dagli abissi, per poter accogliere i progenitori di
un’umanità redenta.
La terra emerge dal mare, ed è verde e bella;
nei campi le messi crescono senza semina...
Prevale
dunque, anche in questa cupa saga nordica, il messaggio salvifico e
rigeneratore, tipico di ogni altra apocalisse. V’è
tragedia e sacrificio ma non ecatombe generalizzata, poiché i giusti saranno
chiamati a regnare su di una terra dal clima mite, libera dalla morsa del
ghiaccio, prodiga di frutti e di benessere.
La
profezia è diffusamente ripresa dall’islandese Snorri Sturluson nella sua Edda del XIII secolo, che a differenza
della precedente è un vero e proprio trattato — non un florilegio poetico — di
mitologia e antico folklore.
Il “sacrificio insanguinato” del dio dell’innocenza
C’è
una vittima sacrificale di natura divina anche in quest’apocalisse del
ghiaccio, ed è Baldr, figlio prediletto di Odino. E il
dio dell’innocenza, luminoso e candido come un
agnello.
Il
suo “sacrificio insanguinato” prelude alla guerra contro il male e alla
vittoria finale del bene.
Baldr
muore per il tradimento del perfido Loki, discendente degenerato di una stirpe
di giganti. E' un essere che nella tradizione nordica evoca i tratti di
Lucifero: è «bello d’aspetto ma d’animo malvagio» e «autore di
ogni frode».
Porta
la tragedia nella famiglia degli dèi, istigando
l’inconsapevole cieco Hodr, figlio anch’egli di Odino, a colpire Baldr con un
ramo di vischio, l’unica pianta che a differenza di ogni altra forza, elemento
e creatura viva della natura non aveva giurato di risparmiarlo.
Per
sottrarsi alla punizione divina, Loki si trasforma in salmone. Ma il dio Thor, signore delle tempeste, riesce a scovarlo e
prenderlo per
Una
volta catturato dagli dèi, questo principe del male è
incatenato in una caverna dell’isola infernale di Lyngi. Lo avvincono
alla roccia le viscere del figlio Narni, sbranato dal fratello Vali. Un
serpente gli sgocciola veleno sul viso, e i suoi spasimi provocano terremoti.
Allo
stesso modo di Satana nell’Apocalisse di
Giovanni, Loki dovrà restare imprigionato fino al tempo della battaglia finale.
Vi prenderanno parte mostri di proporzioni fisiche immani, che con la loro
furia porteranno la distruzione dovunque, fino a sovvertire l’ordine universale
dei pianeti.
Da
qui comincia la parte specificamente profetica di questa cronaca barbarica sui
destini del mondo, tra le più spettacolari della letteratura apocalittica
d’ogni tempo e paese.
Al
termine dei tre inverni previsti dalla volva
irromperanno nei cieli lupi famelici, che ingoieranno il sole e la luna,
provocando la caduta di tutti gli altri astri e contraccolpi terribili sulla
terra. Tutto comincerà dal venire meno di antichi
equilibri naturali: il famelico lupo Skoll, che inseguiva dagli albori del
mondo il sole nel suo corso, riuscirà a raggiungerlo e a trangugiarlo; lo
stesso farà il lupo Hati, inseguitore della luna. Contemporaneamente negli
oceani il grande serpente del Midgard — così chiamato
perché circonda l’intero mondo degli uomini mordendosi la coda — si scuoterà
infuriato, provocando maremoti e inondazioni.
Sulle
acque agitate apparirà l’orrida nave Nagifar,
costruita con le unghie dei morti. La piloterà il gigante Hrymr, malefico
principe del gelo e della notte. Obbediranno ai suoi comandi i mostri dei
ghiacci, che formeranno insieme ai «giganti della rugiada» e alle creature
degli inferi l’esercito del male.
Scenderà
in campo anche Loki, liberato dalle sue millenarie catene. Accorreranno a ingrossare le schiere di quest’armata devastatrice i
reietti di un’umanità degradata dalle turpitudini degli ultimi tempi.
L’immenso
lupo Fenrir, generato da Loki e da un’orchessa, spalancherà le fauci dalla
terra fino al cielo, azzannando e divorando tutto ciò che incontrerà sul suo
cammino, mentre il serpente spanderà il suo veleno sul mondo.
Li
fronteggeranno gli dèi del Valhalla, paradiso degli
eroi, guidati da Odino. Combatteranno alloro fianco i
guerrieri caduti in battaglia, e le divine walkirie
sui loro alati cavalli.
Odino
cavalcherà contro il lupo Fenrir brandendo la sua magica Gungimir, arma dagli
straordinari poteri, che questa volta però non avrà
ragione dell’avversario. Fenrir coglierà infatti di
sorpresa il dio, ingoiandolo. Lo inseguirà nella gola del mostro un altro dei
suoi figli, Vidharr, che riuscirà però ad avere la meglio,
spezzandogli le mascelle con una scarpa rinforzata di cuoio invulnerabile. Thor
ucciderà il serpente del Midgard, ma soccomberà a sua
volta per le esalazioni venefiche della bestia morente. Cadranno combattendo
Freyr e Tyr, divinità dell’abbondanza e della guerra. Si annienteranno a
vicenda Loki e Heimdall, detto il “dio bianco”, che con il suo corno magico aveva dato inizio alla battaglia chiamando a raccolta le
forze del bene.
Un
incendio consumerà la terra, illuminando con i suoi bagliori la morte degli dèi. Sopravviveranno però Viddhar e Vali, figlio di Odino il primo e di Loki il secondo, insieme a Modi e
Magni, figli di Thor, armati dell’invincibile martello appartenuto al padre,
che si uniranno nel ricordo delle perdute glorie, costituendo l’embrione di una
nuova teogonia.
Divideranno
le loro stanze divine con “i provati guerrieri” dell’esercito di Odino, destinati a godere di piaceri senza fine.
Saranno
risparmiati dalle fiamme anche due esseri umani, Lif, il cui nome significa vita, e Lifthrasir, vita di desiderio, per essersi nutriti di rugiada nella sacra foresta
di Hoddimir. Da loro avrà origine la stirpe felice della nuova età dell’oro.
Rinascerà
in questo regno di pace il dio dell’innocenza, per vivere nel nuovo Valhalla in
compagnia del suo uccisore Hodr, inconsapevole strumento della malvagità di
Loki, definitivamente sconfitta:
Baldr ritorna e dimora con Hodr,
il male è bandito dalla terra...
In
molti hanno interpretato questi versi come allusione al ritorno del Cristo,
dopo il sacrificio, e all’avvento dell’eterna pace cristiana. E quel che vale per molte altre profezie escatologiche, tutte in
qualche modo coincidenti tra loro per i più svariati elementi.
Il mistico ramo di vischio
Un
richiamo allo spirito della crocifissione potrebbe anche cogliersi nei versi
che esaltano la sacralità del “ramo sanguigno”, cioè
del tronchetto di vischio servito per uccidere il figlio di Odino.
Allo
stesso modo della croce, strumento del martirio di Cristo, infatti, il legno
che ha provocato la morte di Baldr diviene secondo
questa interpretazione oggetto di culto. E a tutti gli effetti
una reliquia dotata di una grande forza rigeneratrice, come i chiodi o
le schegge della croce.
Si
spiega in tal senso la tradizione che attribuisce poteri scaramantici al
vischio, considerato dagli antichi druidi la pianta magica per eccellenza,
indispensabile ai loro riti religiosi.
Ancora
più sorprendente, per quanto concerne l’analogia con la rivelazione cristiana,
è la strofa conclusiva del canto:
Poi viene dall’alto pel
grande giudizio
il forte signore che domina tutto:
la lotta ei decide, compone i dissidi
e dà delle leggi che durano eterne.
L’influenza
del testo evangelico è talmente manifesta da far sorgere seri dubbi
sull’autenticità di questi versi, probabilmente aggiunti successivamente da
mano cristiana. Molto si è discusso intorno al fatto che «il forte signore» sia
senza nome. Ingenui lettori hanno ritenuto di poterne trarre la conclusione che
latrice del messaggio sia effettivamente stata una maga o veggente
pagana, in pratica una strega, che per la sua familiarità con i demoni non
avesse il potere di nominare Cristo.
La druidessa e Diocleziano
Al
novero delle sibille nordiche, di religione celtica, si deve aggiungere una
certa druidessa di Tongres, fiorente città della Gallia belgica all’epoca della
dominazione romana, in prossimità dell’odierna Liegi. Merita di essere
ricordata, sia pure ignorandone il nome, per la particolarità della profezia
che le viene attribuita.
Si
era nell’inverno del 270 dopo Cristo e notevoli contingenti di truppe romane
erano acquartierati a Tongres in attesa della primavera.
Alcuni legionari avevano preso alloggio in una taverna sul limitare
del bosco nel quale i druidi, sacerdoti della locale religione celtica, erano
soliti celebrare i loro riti. C’era tra questi soldati un dalmata di
bell’aspetto e dal fisico robusto, di venticinque anni circa d’età, che se ne stava taciturno, isolato dagli altri, consumando
un pasto frugale. Troppo frugale — o almeno così parve a
una donna che l’osservava incuriosita nell’ombra, come attratta da un
misterioso richiamo — per un giovane della sua prestanza fisica.
Così,
quando il legionario ebbe finito il suo pasto e pagato il conto con una moneta
di rame, la donna gli rivolse la parola con una punta d’ironia, come per
richiamarne l’attenzione.
«Siete avaro», disse. Lui si girò, fissandola negli occhi. La
tradizione vuole che fosse una bella donna, di
corporatura imponente, e che vestisse alla maniera eccentrica dei maghi
celtici. Il giovane dalmata si trovò dunque di fronte una creatura dall’aria
selvatica e i capelli sciolti sulle spalle, come si conveniva a una frequentatrice della sacra foresta, che probabilmente
indossava «una corta roba nera zebrata di banderuole rosse, cascante sopra dei
larghi pantaloni di flanella bianca sormontati da stivaloni di cuoio, bianchi
anch’essi», coprendosi le spalle con «un mantello di grossa lana a scacchi
rossi».1
Gli
astanti sembravano mostrare un grande rispetto per
questa donna dall’aria così pittoresca, e una particolare curiosità per ciò che
aveva detto. Si era perciò fatto un grande silenzio
nella taverna, rotto soltanto dal crepitare del fuoco acceso e dal sibilo del
vento all’esterno.
Il
legionario allora, sentendosi al centro dell’attenzione
generale, rispose alla donna con altrettanta ironia. «Sarò più prodigo», disse,
«quando sarò imperatore».
«Sarai
imperatore», ribatté lei di rimando, continuando a fissarlo, «quando ucciderai
il cinghiale».
Detto
questo, la donna uscì e disparve nella notte.
«Chi
era?», domandò allora il soldato all’oste.
«Una
sacerdotessa che vive nella foresta», gli fu risposto. «Trascorre il suo tempo
sotto una quercia sacra, in attesa delle rivelazioni
divine. Gli dèi si servono di lei per dispensare agli uomini i loro consigli.
Non si è mai sbagliata».
«Quando
vi accadrà quel che vi ha detto», concluse un altro
avventore, «ricordatevi di Tongres».
Iniziò
da quel momento per il giovane dalmata, che si chiamava Diocle, un’assillante
caccia al cinghiale. Vi si dedicava, dovunque si trovasse, con zelo maniacale,
uccidendone a decine. Nulla però succedeva che potesse
fare pensare, sia pure lontanamente, all’avverarsi della profezia.
Essendo
un buon servitore dello stato, dotato di forte spirito di servizio oltre che
di coraggio, cresceva di grado; questo sì, faceva carriera. Ma non bastava
accumulare cariche — sia pure prestigiose, come quella
di prefetto del palazzo imperiale — per poter considerare credibile
l’eventualità prospettata dalla druidessa.
Gli
imperatori si avvicendavano in un succedersi di delitti, e lui era sempre
accanto a loro, ma senza trarne alcun vantaggio. Caddero Aureliano, Tacito, suo
fratello Floriano, Probo, Caro, i suoi figli Carino e
Numeriano, tutti assassinati. Ma soltanto alla morte di quest’ultimo, nel
settembre
Il
giovane imperatore era stato infatti pugnalato dal suo
patrigno Aper, che vuol dire appunto cinghiale. Era lui dunque la bestia da
sacrificare per salire al trono. Diocle (che aveva latinizzato il suo nome in
Diocleziano) lo fece di suo pugno, e l’esercito lo acclamò imperatore.
Il
suo regno fu funesto per i cristiani, che per dieci anni furono sottoposti a
persecuzioni crudeli.
1
La descrizione di pura fantasia, che comunque
ripropone caratteristiche certe dell’abbigliamento gallico, è di Alberto Del
Fante (Le procellarie del futuro, Bologna
1936), il quale cita come propria fonte la rivista «Il
mistero» (Milano, giugno 1935, n.
22), diretta da Ferdinando De Rio.