Tratto da: Le Grandi Profezie Autore Franco Cuomo
Newton
& Compton Editori
L'enigma di
Nostradamus: parte seconda
Il leone accecato in gabbia
Hitler con la sua spaventosa «fornace» rappresenta qualcosa di
più di una semplice profezia. È uno stupefacente tentativo - uno dei più
inspiegabili mai registrati nella storia della divinazione - di evocare realtà
future con il loro nome. Il veggente si spinge fino a
una minuta descrizione di certi atteggiamenti tipici del dittatore,
evidenziandone tra l'altro la delirante smania oratoria: lo chiama «rabbiosa
lingua» e «vincitore insanguinato che arringa». Ma non vanno sottovalutate,
nell'affresco visionario delle Centurie altre sorprendenti
anticipazioni: della rivoluzione francese (in specie, una vera e propria
cronaca della fuga di Varenne), dell'ascesa al potere di Napoleone («più
macellaio che principe»), dell'esecuzione di Mussolini e dei suoi gerarchi (il
«nero feroce», con i suoi «appesi per il collo e per i piedi»), delle due
guerre mondiali, del comunismo (la «falce») e della caduta del muro di Berlino,
delle perduranti tensioni tra la civiltà islamica e quella occidentale,
chiamando addirittura in causa con la sua sigla storica (UAR) la
Repubblica araba unita, costituita nel 1958 da Egitto e Siria.7
Non bisogna comunque sottovalutare il
fatto che se per la verifica di molte profezie bisognò attendere secoli - come
nel caso di quelle che abbiamo citato in riferimento al nostro tempo - per
altre il riscontro fu rapido. Rientra tra queste la predizione della morte del
re di Francia Enrico II, marito di Caterina de'
Medici, protettrice del veggente, che per le sue modalità singolari e del tutto
imprevedibili suscitò enorme risonanza quando Nostradamus era ancora in vita. Eccone il testo:
II giovane leone sormonterà il
vecchio
in campo bellico per singolar tenzone.
Nella gabbia d'oro gli occhi
gli bucherà,
due ferite in un colpo, per morire di
morte crudele.8
Ebbene,
il sovrano fu battuto in torneo dal giovane Gabriel de Lorcey, conte di
Montgomery. Enrico aveva quarantanni, il suo avversario
ventinove. Entrambi recavano sullo scudo
l'insegna di un leone. Il re aveva il capo protetto da un elmo con celata
d'oro, che gli copriva il viso come l'inferriata di una gabbia. La punta della
lancia di Montgomery, spezzandosi nell'impatto, andò a
infilarsi nella celata, trafiggendo gli occhi di Enrico, che patì prima di
morire una dolorosa agonia di dieci giorni.
L'episodio, così minuziosamente descritto da Nostradamus,
avvenne il 30 giugno 1559, quattro anni dopo la pubblicazione del testo
profetico, inserito nella prima centuria. All'epoca il veggente, già popolare in tutta la Francia, aveva cinquantasei anni, essendo nato a
Saint-Remy-de-Provence nel 1503, ed era nel pieno della sua attività.
7 Centurie, VIII, 97.
8 Le Lyon jeune, le vieux
surmontera / en champ bellique par singulier duelle. I Dans cage d'or lesjeux
lui creverà, I deux classes une, pour mourir mort cruelle {Centurie, 1,35).
Le «parole di potenza»
L'origine ebrea non aveva comportato per Michel de Nostredame
restrizioni o confische. Era la sua, del resto, una famiglia di medici e notai
fedeli alle regie istituzioni e al culto cattolico, abbracciato ormai da più
generazioni. Lui stesso, per quanto depositario di segreti ereditati
dall'antica stirpe d'Issacar, una delle più nobili e ortodosse tribù d'Israele,
praticava con rispetto e devozione la nuova religione.
Ebbe quindi modo di studiare liberamente medicina alle
università di Avignone e di Montpellier,
distinguendosi fin da studente nella lotta contro la peste di Lione. I suoi
successi scientifici gli attirarono però la gelosia
degli altri medici, per cui preferì operare in un ambito più segreto,
dedicandosi alla produzione di farmaci prodigiosi per il suo tempo e alle
pratiche divinatorie. Contribuì a questo suo ritiro dall'esercizio attivo di
una professione molto amata la morte della giovane moglie Adriele e dei figli,
uccisi per un fatale scherzo del destino proprio da quel morbo che aveva in
tante occasioni sconfitto.
Nostradamus viaggiò molto, dopo questa fase preliminare della
sua vita, e soggiornò in monasteri nei quali approfondì le sue conoscenze
esoteriche. Sperimentò la severa regola monastica dell'abbazia di Orval, detta anche dell'Aurea Vallis, nella cui
biblioteca potè consultare libri essenziali alla sua formazione spirituale.
Ebbe contatti ed esperienze nel mondo islamico e in Occidente, a Venezia, in
Egitto, in Germania e presso svariate corti d'Italia, accolto dovunque con una deferenza e una disponibilità che lasciano
intuire l'appartenenza a un ordine iniziatico. Nulla si sa di questa misteriosa
fratellanza, ma è presumibile che rientrasse in quella
rete di rapporti sotterranei tra intellettuali e viaggiatori interessati - come
il tedesco Agrippa von Nettesheim, fondatore di una "comunità dei
maghi" con diramazioni dovunque, o l'inglese John Dee, l'italiano Giordano
Bruno, lo svizzero Paracelso - allo scambio dei segreti, soprattutto
scientifici, appresi nel corso delle loro peregrinazioni. Non è quindi da escludere - anzi, stando alle date della sua vita, è
plausibile - che anche Nostradamus possa essere appartenuto a quella cerchia di
"venerabili sodali" da cui prese successivamente vita, all'inizio del
Seicento, la società segreta dei rosacroce.
Il successo e la notorietà del veggente, dopo la pubblicazione
delle prime Centurie, indussero Caterina de' Medici
a chiamarlo presso la corte, a Parigi, come medico personale di suo figlio
Carlo IX, re dalla mente fragile quanto la sua salute fisica. Non smise per
questo di scrutare le nebbie del futuro, creando intorno a sé mistero e
stupore, anche in seguito alle guarigioni operate mediante l'applicazione di
moderni metodi di cura, senza mistificazioni né trucchi.
Si dice che il più significativo
segreto di Nostradamus consistesse nella sua capacità di pronunciare con
l'intonazione giusta le «parole di potenza»9 apprese attraverso lo
studio dei geroglifici in Egitto, durante un soggiorno nella valle delle
piramidi. Non va dimenticato, del resto, che il veggente fu anche un esperto
decrittatore di alfabeti scomparsi, del quale si
conosce la familiarità con gli antichi testi (si dice che fosse in possesso dell'Almagesto
di Tolomeo) e le iscrizioni sulle pietre di remote civiltà.
Al di là di
qualsiasi congettura sulla reale essenza dei suoi poteri, è certo che la vita
del "maestro di Salon", così chiamato dal nome della cittadina
provenzale nella quale si stabilì dopo il suo lungo girovagare, fu ricca di
episodi stupefacenti e inesplicabili, non sempre documentati attraverso
l'inserimento nel complesso profetico delle Centurie, e perciò
leggendari.
Degno di nota tra questi è l'incontro, nei pressi di Padova, con
un anonimo frate francescano, di fronte al quale il giovane Michel
s'inginocchiò d'improvviso, come soggiogato da un imperativo
sovrannaturale. Il religioso, imbarazzato anche dalla sorpresa dei
confratelli che avevano assistito alla scena, lo invitò ad alzarsi con un gesto
risoluto, chiedendogli perché mai si stesse comportando a quel modo; e
Nostradamus, senza esitazione, rispose con un interrogativo ancora più
stupefacente di quella inattesa genuflessione:
«Non dovrei forse inginocchiarmi di fronte a colui
che un giorno sarà seduto sul trono di Pietro?».
L'ignoto francescano era infatti Felice
Perretti, che di lì a qualche tempo sarebbe stato incoronato papa, con il nome
di Sisto V.
Nostradamus non visse abbastanza per
poter constatare di persona l'avverarsi di questa sua giovanile profezia (nel
1585) ma è certo che papa Perretti avrà ripensato, nell'ascoltare il responso
del conclave, alla stravagante previsione dell'ignoto viandante incontrato anni
addietro nella bruma della pianura veneta.
'Donato Piantanida, La chiave perduta, Milano 1959, e Nostradamus
predisse la notte dei tempi, Roma 1969.
«Stando di notte assise.»
Da viaggiatore instancabile, qual era stato fino al ritiro nella
cittadina di Salon, il più popolare veggente di Francia - e si può ben dire
d'Europa - mutò dopo di allora abitudini, affidando l'esito delle proprie
incursioni nel futuro a una ricerca metodica, scandita
da orari precisi e rituali ben definiti. Divenne per lui un'abitudine quotidiana ritirarsi all'imbrunire nel suo «segreto
studio», come scrive in apertura della prima Centuria,
e restarvi assiso in solitudine su di uno scranno di metallo fino all'alba
del giorno dopo, cercando d'intravedere alla luce di un'esile fiamma «ciò che
non è vano credere». Racconta lui stesso che per evocare la «divina visione» si
serviva di una verga tenuta eretta tra le braccia - la tradizionale bacchetta
magica, posta au milieu des branches - mentre un'aura mistica ne avvolgeva
come in una nuvola il corpo. Traspaiono dalla sua testimonianza interessanti
similitudini con le pratiche delle sibille, in specie della Pizia o Delfica,
descritte da Giamblico e Diodoro Siculo.10
Stando di notte in segreto
studio
solo assiso sul seggio di rame
la fiamma esigua che dalla solitudine
sfavilla
fa dire ciò che non è vano credere.
La verga in mano a mezzo delle braccia
l'orlo della veste e il piede lambito
dall'onda
paura e voce vibrano lungo le maniche
di splendore divino. Il divino siede
accanto.11
10 Vedi cap. 12.
11 Centurie, 11-2.
Nostradamus favoriva inoltre lo stato di trance
indispensabile ad eccitare in lui la scintilla divinatoria mediante specchi e
bracieri ardenti. Se ne deduce che gli fossero
familiari le tecniche dell'antica catottromanzia, com'era chiamata (dal greco kàtoptron,
specchio, e katoptrikòs, rispecchiante) l'arte di trarre profezie
dai bagliori delle superfici riflettenti. Venivano
utilizzati a tale scopo, fino dai tempi più remoti, oltre ai comuni specchi,
talvolta concavi o convessi, cocci di vetro, recipienti d'acqua stagnante o
anche sfere di cristallo, in auge soprattutto tra gli arabi. Sembra che
Nostradamus fecalizzasse le proprie visioni nell'acqua contenuta in un bacile di ottone, sostenuto da un tripode del medesimo metallo, ma
tenesse acceso nel contempo un braciere, indulgendo alla suggestione mantica
dei suoi riverberi infuocati. Tutto lascia insomma ritenere che il suo
personale metodo divinatorio si fondasse su di una
interazione tra tecniche diverse, tra le quali rientravano - accanto alla catottromanzia
tradizionale - idromanzia e piromanzia, oltre naturalmente all'astrologia. È
lui stesso a parlare dell'esistenza di un nesso tra il movimento dei corpi
celesti e le cose da lui viste «guardando in uno specchio ardente».
Coadiuvava Nostradamus in questa sua sistematica
ma estenuante ricerca un fedele apprendista, di nome Jean-Ayme de
Chavigny, laureato anche lui in medicina all'università di Montpellier, autore
di memorie dalle quali abbiamo una descrizione accurata dell'aspetto fisico del veggente, uomo di aitante corporatura e
volto mite, segnato da una espressività intensa. Aveva, come si evince anche dall'iconografia, uno sguardo rassicurante,
austero ma tendente al sorriso. Il discepolo annota l'insolito colore grigio
chiaro degli occhi, l'ampiezza della fronte, la severità della barba ben
curata, la sobria eleganza nel vestire, ma anche la tendenza a mutare
improvvisamente umore nei confronti del prossimo, come colpito da intuizioni
che trasformavano una iniziale cordialità in manifesta
diffidenza, o viceversa. Era tuttavia dotato di un carattere costante nel
sottrarsi all'influenza degli eventi, in grado di sostenere il peso della
tragedia senza soccombere e le lusinghe della gloria senza esaltarsi.
Sperimentò queste ultime in più occasioni a Salon, dove si recarono a rendergli
omaggio principi e sovrani, tra cui i duchi di Savoia
e lo stesso Carlo IX. Si racconta che il re, ricevuto in città da una
delegazione comunale, interruppe sbrigativamente l'oratore che gli rivolgeva un
indirizzo di saluto per correre dal veggente: «Niente discorsi.
Sono venuto solo per Nostradamus».
Le «figure nebulose»
In questa fase fortunata della sua vita, appagato negli studi e
onorato dai potenti, Michel volle anche ritrovare sentimenti perduti con la
morte della prima moglie e dei figli. Si risposò quindi, quarantacinquenne, con
un'avvenente giovane vedova di Salon - Anne Ponsard, portatrice tra l'altro di
una dote di 400 fiorini, un capitale che andò a
incrementare il suo già ragguardevole patrimonio - dalla quale ebbe otto figli.
A uno di questi, il piccolo Cesare, avuto nel 1553,
quindi all'età di cinquant'anni, Nostradamus dedica una lunga lettera,
attraverso la quale si rivolge in effetti alla posterità fornendo delucidazioni
sulle ragioni del modo da lui prescelto per esporre le sue profezie. Vi si
legge che «i regni, i partiti e le religioni subiranno cambiamenti così
diametralmente opposti rispetto al presente che se io venissi a riferire ciò
che l'avvenire riserverà, quelli [gli uomini del presente] si
troverebbero in disaccordo con le loro visioni e previsioni». Ammette più
avanti il veggente di essersi voluto «dilungare con
astruse e ambigue sentenze sui fatti futuri, anche i più urgenti, al fine
che gli umani mutamenti accadano senza scandalizzare la fragilità dell'ascoltatore».
Per questo, aggiunge senza riserve, il suo messaggio è «riferito attraverso
figure nebulose più che nitidamente profetiche». Si sofferma poi sulla
necessità di tenere conto che «tre tempi sono coesistenti nell'eternità,
essendo la rivoluzione [l'evolversi degli eventi] subordinata a cause passate,
presenti e future».
Esprime in tal modo una moderna concezione delle pratiche
divinatorie, sottolineando in tutta chiarezza criteri
propri di una fisica proiettata
oltre le barriere del tempo, secondo la quale il futuro affonda radici nel
passato e, per necessario raccordo, nel presente.
Riferisce inoltre che le quartine delle sue Centurie «contengono
vaticini continuativi, da questo momento fino all'anno
3797». È un dato che nessun lettore avrebbe potuto
cogliere altrimenti, da una lettura anche profonda del testo, essendo le
profezie raccolte senza nessun ordine cronologico né indicazioni esplicite sul
tempo cui si riferiscono.
Si apprendono anche, dalla lettera al figlio, particolari relativi agli abbandoni visionali del profeta. Per stimolare
i quali era solito inalare «aromatici effluvi»,
bruciando verosimilmente incenso nel braciere.
La lettera, in data primo marzo 1555, è anche una conferma della
religiosità di Nostradamus, che pur dissertando di astrologia
e influssi planetari, riconduce ogni sua deduzione alla «onnipotenza di Dio
eterno».
Ribadisce
che tutto proviene da Dio in una seconda celebre lettera, indirizzata tre anni
dopo, il 27 giugno
Il nuovo regno di Saturno
La lettera al re di Francia conferma quali preoccupazioni nutrisse il veggente sulla possibilità che le sue profezie
venissero interpretate correttamente, per cui si sforza di fornirne in termini
arcani
Continua…