Tratto da: Le Grandi Profezie  Autore Franco Cuomo

Newton & Compton Editori

 

 

Il giorno dell'ira

 

Al di là della contingenza che caratterizza le profezie dell’Antico Te­stamento, circoscrivendone gli effetti all’ambito specifico d’Israele, non mancano nella Bibbia riferimenti ai destini futuri dell’intera umanità. E il messaggio escatologico che prelude alla grande saga visionaria di Giovanni, cronista della fine dei tempi.

«Il giorno del Signore arriva crudele, nell’indignazione e nella col­lera, per fare della terra un deserto e sterminare i peccatori», scrive Isaia. «Le stelle del cielo e le costellazioni non faranno brillare la loro luce, il sole si oscurerà al suo sorgere, e la luna non diffonderà il suo chiarore».

Terribile è l’annuncio che la maestà dei cieli, per bocca del profeta, rivolge agli uomini: «Lo spavento, la fossa e il laccio vi sovrastano. E avverrà che chi tenterà di fuggire cadrà nella fossa per lo spavento, e chi tenterà di uscirne sarà preso al laccio. Le cateratte del cielo si apriranno e le fondamenta della terra tremeranno. La terra si schian­terà tutta, si disfarrà tutta, si scuoterà tutta. La terra vacillerà come un ebbro fuori dal suo sito, e cadrà per non risorgere più. In quel giorno il Signore degli eserciti infliggerà castighi...» (24, 17-21). Si direbbe che addirittura Isaia con quel suo cenno al pianeta oscillante fuori della posizione in cui dovrebbe trovarsi possa alludere a uno sposta­mento dell’asse terrestre.

 

 

La bellezza umiliata dal fuoco

 

Per quel giorno Isaia redige una sorta di decalogo apocalittico, elen­cando quali potranno essere gli obiettivi per così dire privilegiati del­l’ira divina. Le armi del Signore, scrive il profeta, si leveranno «con­tro ogni superbo e altero, contro chiunque si innalza ad abbatterlo, contro tutti i cedri del Libano alti ed elevati, contro tutte le querce del Basan, contro tutti gli alti monti, contro tutti i colli elevati, contro ogni torre eccelsa, contro ogni muro inaccessibile, contro tutte le navi di Tarsis, contro tutte le imbarcazioni di lusso» (2, 12-16). Vale la pena di fare caso alla modernità della sua concezione di giustizia, che per colpire la superbia mette in conto le imbarcazioni di lusso. Per il resto, orgoglio e alterigia sono individuati non solo nei comporta­menti umani ma nelle apparenze che traspaiono dalla natura e dalle cose: spariranno gli alberi e i monti, se alti ed elevati, e le torri, se eccelse.

Verrà punita in quel giorno la vanità delle «figlie di Sion», sulla quale Isaia mostra di essere puntigliosamente informato. Alle donne il Signore toglierà «l’ornamento di fibbie, fermagli e lunette, orecchi­ni, braccialetti, veli, bende, catenine ai piedi, cinture, boccette di pro­fumi, amuleti, anelli pendenti dal naso, vesti preziose e mantelline, scialli, borsette, specchi, tuniche, cappelli è vestaglie», lasciando loro «invece di profumo marciume, invece di cintura una corda, invece di ricci calvizie, invece di vesti un sacco, invece di bellezza ustioni» (3, 18-24). Così ridotte in questo stato pietoso, le donne d’Israele figure­ranno nel disegno apocalittico di Isaia quale rappresentanza simboli­ca dell’intero genere femminile.

In più la terra sarà orrendamente ricoperta di insetti «quel giorno», poiché «il Signore farà un fischio alle mosche che sono all’estremità dei canali d’Egitto e alle api che si trovano in Assiria», le quali «ver­ranno a posarsi tutte nelle valli ricche di burroni, nelle fessure delle rocce, su ogni cespuglio e su ogni pascolo» (Isaia 7, 18-19). E un’im­magine che sembra anticipare l’invasione delle mostruose cavallette di Giovanni, come del resto parrebbe voler fare Gioele quando descrive l’irrompere di nemici «dall’aspetto di cavallo» sulla scena di quello che anche lui chiama «giorno del Signore, molto terribile».

«Come destrieri essi corrono, come fragore di carri che balzano sulla cima dei monti, come crepitio di fiamma avvampante nella stoppia, come popolo schierato in battaglia... Piombano sulle città, si precipitano sulle mura, salgono sulle case, entrano nelle finestre come ladri» (Gioele 2, 4-9).

Sarà «giorno d’ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di sterminio e di rovina, giorno di tenebra e di caligine, gior­no di nubi e di oscurità, giorno di squilli di tromba e di allarme» (Sofonia 1, 15-16). Coincide con le previsioni di lsaia questo scena­rio descritto dal profeta Sofonia sul finire del VII secolo avanti Cristo, ma quest’ultimo si distingue per lo sforzo di evidenziare quelle possibilità di salvezza che diverranno chiare nell’Apocalisse di Giovanni.

Come quest’ultimo profeta dell’intero ciclo, infatti, Sofonia, che è tra i primi, prevede un giudizio divino che alla severità nei confronti dei ricchi corrotti contrapponga la clemenza per i diseredati, per i poveri, per i giusti. A loro si rivolge incitandoli a cercare il Signore, in vista della catastrofe incombente, e di porsi sotto la sua protezio­ne.


Va detto che profeti come Isaia e come Sofonia, i quali scrivono in epoca antecedente all’esilio di Babilonia1, identificano la catastrofe finale con questa prova tragica per il popolo d’Israele.’ Il respiro for­temente simbolico della loro descrizione, tuttavia, sfugge a ogni deli­mitazione epocale, conferendo alla profezia uno spessore allegorico universale che la pone tra i prodromi di ogni altra visione escatologi­ca. Tant’è che nella stessa Apocalisse scritta otto secoli più avanti da Giovanni la città di Babilonia rimane un’idea più che una località reale, quintessenza simbolica di ogni male della terra. Per questo la sua rovina, quale che sia l’epoca e il luogo in cui avvenga, rappresen­ta la rovina di ogni altra civiltà nella quale siano prevalse le potenze infernali.

Non può che inquadrarsi come anticipazione della visione di Giovanni, d’altronde, il coacervo catastrofico di rivelazioni che ven­gono ragionevolmente definite nel loro insieme Apocalisse maggiore e Apocalisse minore di Isaia.2 Della prima si è citato il passaggio che vede la terra talmente dissestata da vacillare fuori del suo sito natura­le. Nella seconda sono descritte le cose che accadranno «nel giorno della vendetta del Signore», quando la sua spada sarà «grondante di sangue, ingrassata di grasso»:

 

I torrenti di quel paese si cambieranno in pece,

la polvere in zolfo,

la terrà diventerà lava ardente.

Non si spegnerà né di giorno né di notte,

salirà per sempre il suo fumo.

Resterà deserta per tutte le generazioni a venire

e mai più alcuno vi passerà.

Ne prenderanno possesso il pellicano e la civetta,

il gufo e il corvo.

Il Signore stenderà su di essa il regolo della solitudine

e la livella del vuoto...

Nei suoi palazzi cresceranno spine,

ortica e cardo nelle sue fortezze.

Diventerà una tana di dragoni,

una landa di uccelli rapaci.


Gatti selvatici e iene si azzufferanno tra loro,

i demoni si chiameranno l’un l’altro.

Vi sosteranno anche i serpenti

e vi faranno il nido.

Vi troverà rifugio la nottola per deporvi le uova,

covarle e farle schiudere alla sua ombra.

Verranno anche gli avvoltoi

a cercarsi l’un l’altro.

Nessuno si farà attendere... (34, 9-16)

 

È attraverso tali escursioni tra le macerie di catastrofi collocabili in un futuro remoto che la letteratura biblica trova precisa connessione con le grandi paure contemporanee. Anche la risposta è la medesima. Tanta desolazione non si esaurisce infatti in se stessa, non pone il sigillo definitivo sulla storia dell’uomo. E invece preambolo, come nell’Apocalisse di Giovanni, per una pace messianica che tramuterà la terra in un nuovo Eden, nel quale

 

il lupo dimorerà insieme all’agnello,

la pantera si stenderà accanto al capretto,

il vitello pascolerà in compagnia del leone

e un fanciullo li guiderà... (Isaia 11, 6)

 

 

A ciascuno la sua apocalisse

 

Altre apocalissi, dentro e fuori del contesto giudaico-cristiano, affol­lano il quadro delle profezie rivolte a investigare sui traguardi di morte verso i quali l’umanità parrebbe, secondo un ricorrente luogo comune, diretta. Quella di Giovanni è sicuramente la più completa e avvincente rivelazione sulla fine dei tempi  anche se, come si è visto, dev’essere letta in una chiave salvifica e rigeneratrice, non distruttiva  ma non è la prima né l’unica degna d’interesse.

E l’unica accreditata nelle Scritture come «parola di Dio», questo sì, alla pari dei Vangeli, ma non l’unica di cui si riconosce l’auten­ticità storica, sia pure negando la matrice divina dell’ispirazione.

Esistono apocalissi apocrife, riconducibili tanto alla tradizione del Nuovo che dell’Antico Testamento, la cui paternità è attribuita per calcolo degli autori, deliberatamente anonimi, a prestigiose figure di santi e di profeti, apostoli e patriarchi. Per questo sono dette apocrife, cioè nascoste, dal verbo greco apocripto, che significa per l’appunto celare: perché i loro veri autori hanno preferito restare nell’ombra e servirsi di nomi già consacrati a una fama universale, così da conferi­re alle proprie profezie una maggiore autorità.

Non sono riusciti nel loro intento per quanto concerne l’autorità, ma sicuramente hanno ottenuto un’attenzione che altrimenti sarebbe stata loro negata, sia pure talvolta in termini di semplice curiosità.


Come si conviene a un insieme di bei racconti, venati magari di qualche inge­nuità, che gravitano intorno ai grandi interrogativi filosofici del chi siamo e del donde veniamo, ma soprattutto del dove andiamo.

Appartengono a questa letteratura escatologica le apocalissi attribui­te a Esdra, Baruch e Mosè, per quanto riguarda la nomenclatura vete­rotestamentaria, e a Pietro, Paolo e Tommaso, per quella cristiana. Anche le prime tre, tuttavia, risultano scritte in tempi successivi alla nascita di Cristo.

E detto Apocalisse di Baruch un testo siriaco del secolo che certo non ha niente a che fare con l’autentico profeta Baruch (‘il benedet­to’), segretario e compagno di Geremia nella schiavitù di Babilonia, relatore di meravigliose visioni sulla futura rinascita ebraica. L’apocrifo, a differenza del vero Libro di Baruch (581 avanti Cristo), si limita a un catastrofismo di maniera, enunciando al lettore «ciò che accadrà alla fine dei giorni».

E indicato come Apocalisse di Esdra l’ultimo di quattro libri profe­tici di autore ebreo del I° secolo, pervenuto in una traduzione latina (dal greco) nella quale sono riscontrabili aggiunte cristiane. Illustra il giudizio finale e i segni da cui sarà preceduto in sette visioni, confer­mando che la sorte dei buoni sarà diversa da quella dei cattivi. E tra i libri che la Chiesa consente di allegare alle Scritture in coda, subito dopo l’Apocalisse di Giovanni  pur escludendo che possa conside­rarsi espressione della volontà divina.

E invece di autore cristiano, nonostante il riferimento al grande inter­locutore dell’originario Dio d’Israele, l’Apocalisse di Mosè, scritta in greco. Le viene accostata un’Ascensione di Mosè, anch’essa apocrifa, che racconta la storia d’Israele dalle origini all’avvento del Cristo.

Si collocano nel medesimo ambito profetico il Libro dei giubilei, detto anche Piccola Genesi, che partendo dalla visione mosaica della creazione ricostruisce la cronologia degli ebrei, e il Testamento dei dodici patriarchi, nel quale i grandi protagonisti della Bibbia dispen­sano predizioni e insegnamenti tratti dalla propria esistenza.

Non rivestono uno specifico interesse nell’ambito della letteratura escatologica le apocalissi attribuite ad autori neotestamentari, nelle quali prevale l’imitazione dell’insuperabile modello giovannita. Sono da collocarsi in tale limbo letterario quelle di Pietro, di Paolo e di Tommaso.

Si distingue in qualche modo la prima, citata tra l’altro da Clemente Alessandrino, per il diffondersi dell’autore nella descrizione insolita di come si svolgerebbe dopo il giudizio finale l’esistenza dei beati e dei dannati. Meno interesse suscitarono le altre due, rimaste peraltro sconosciute fino al V° secolo, quando furono  menzionate nel decreto di papa Gelasio, che distingueva gli scritti canonici  cioè ritenuti “parola di Dio” dagli apocrifi.

L’accettazione della letteratura apocrifa neotestamentaria da parte della Chiesa non è stata del tutto indolore.

Diversamente da quanto era accaduto per gli apocrifi di tradizione ebraica, quelli d’ispirazione cristiana crearono una notevole confu­sione per la pretesa di attribuire a ciascun apostolo suoi personali vangeli, atti, epistole o apocalissi.

Si ebbero un Vangelo secondo gli egiziani, uno secondo gli ebrei, un altro secondo gli ebioniti, seguaci di una setta fondamentalista che negava la divinità del Cristo e propugnava un rigido ritorno alla legge mosaica; e ancora: un Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore di origine siriaca, un Protovangelo di Giacomo, un Vangelo di Tommaso l’israelita e altri a nome di Pietro, Filippo e via dicendo. Non manca­rono Atti di Pietro, Atti di Paolo, Atti di Pietro e Paolo insieme, e poi di Andrea, di Giovanni, di Tommaso. Si può ben comprendere, infine, quanto potesse sbizzarrirsi la fantasia degli anonimi nelle lettere. Sensazionali appaiono tra queste le improbabili corrispondenze tra Paolo e il filosofo romano Seneca (otto Epistole di Seneca a Paolo e sei di Paolo a Seneca, in latino) e tra Gesù e Abgar Uchana, indicato nella traduzione greca come toparca di Edessa, cioè governatore del luogo, nell’anno 31 (una Epistola a Gesù da Abgar Uchana e relativa Risposta del Salvatore a mezzo del messaggero Anania, entrambe in siriaco).

Molti di questi testi nacquero nell’ambiguità, per artificio dottrina­rio e malinteso zelo religioso, sotto l’influenza di movimenti dall’i­dentità incerta, suscitando diffidenza e reazioni nella comunità eccle­siastica. Ne derivarono dispute, dissensi e, in vari casi, accuse di ere­sia.

A parte il Vangelo secondo gli ebioniti, detto anche Vangelo dei dodici, palesemente in contrasto con la fede cristiana, il Vangelo secondo gli egiziani  mostrava intenti antitrinitari, il Vangelo di Filippo era decisamente gnostico, il Vangelo di Pietro accettava il docetismo, sostenendo che il corpo del Cristo era solo apparente, e apparivano di contenuto eretico anche gli Atti di Pietro, di Andrea, di Giovanni e di Tommaso.

 


Le donne degli angeli

 

Un rilievo maggiore, tra gli apocrifi biblici di segno apocalittico, riveste il Libro di Enoc, che ricostruisce le origini del mondo approfondendo i misteri della creazione, con cenni di una certa sug­gestione poetica alle dimore degli angeli e dei giusti, alla persecuzio­ne di questi ultimi e alla loro liberazione, concomitante con il castigo degli «aridi di cuore, per i quali non ci sarà mai pace» (1, 5).

Agli anonimi che si celano dietro il nome di Enoc (diversi, poiché la stesura si protrasse dal tempo dei Maccabei, 160 circa avanti Cristo, fino al II° secolo dopo) si deve una delle più gentili leggende che si possano immaginare sull’origine dell’arte profetica e della magia in generale, le quali sarebbero scaturite dall’amore degli angeli per le figlie degli uomini.

Si legge infatti nel libro la cui originalità è accresciuta dalle lingue in cui è scritto, etiopica e slava che subito dopo la creazione del mondo alcuni angeli si innamorarono delle donne della terra, e rinun­ciarono al cielo per esse. Acquistarono natura umana, si congiunsero con queste giovani bellissime ed insegnarono loro i segreti delle stel­le, mettendole in grado di leggere il destino degli uomini e di com­piere ogni incantesimo.

Dalle spose degli angeli, secondo il Libro di Enoc, nacque la stirpe dei maghi.

Quanto agli angeli che si erano lasciati sedurre dalla loro bellezza, si può dire che il loro peccato fu simile a quello di Adamo, trasgres­sore per amore di una donna. Un peccato tutto sommato veniale rispetto a quello degli angeli ribelli, che per orgoglio seguirono Lucifero nella sua rivolta contro Dio.

 

 

 

1 La deportazione degli ebrei in Babilonia inizia nel 586 avanti Cristo, sotto il regno di Nabucodonosor, e dura fino al 539, allorquando Ciro s’impadronisce di tutta la Mesopotamia. In relazione all’esilio di Babilonia, i profeti della Bibbia si dividono in tre gruppi: a) del perio­do preesilico: Amos, Osea, Isaia, Michea, Sofonia, Naum, Abacuc, Geremia; b) del periodo esilico: Ezechiele, Secondo Isaia (Deutero-Isaia), Daniele; c) del periodo postesilico: Aggeo, Zaccaria, Terzo Isaia (Trito-lsaia), Abdia, Malachia, Gioele, Giona. I loro libri abbracciano un arco di tempo che va dall’vili al v secolo.

2 La «maggiore» è collocata nei capitoli 24-27 del Libro di Jsaia, la «minore» nei capitoli 34-35 Esistono dubbi sulla paternità effettiva di quest’ultima, che viene da certi esegeti attri­buita al Deutero-Isaia.