Tratto da: Le Grandi Profezie  Autore Franco Cuomo

Newton & Compton Editori

I numeri della Grande Piramide  Parte prima

 

Tutto ciò che è intelligibile, sosteneva Pitagora, può essere spiegato e comunicato attraverso i numeri. Se questo è vero, le piramidi egi­ziane (e in specie il monumento funerario del faraone Cheope, deno­minato per le sue dimensioni Grande Piramide)1 rappresentano il più spettacolare tentativo di tramandare l’antico sapere attraverso i mil­lenni. Ma poiché la conoscenza scientifica era retaggio esclusivo e segreto della casta sacerdotale, depositaria di poteri sacromagici, deve ritenersi che alle piramidi non fosse semplicemente affidata la trasmissione di verità d’interesse profano, relative per esempio alla tecnica delle costruzioni, ma qualcosa di più complesso e sfuggente, riguardante l’intero percorso (anche futuro) del genere umano. Da qui la convinzione, via via suffragata dall’elaborazione di simboli e dati numerici, che la Grande Piramide fosse in realtà un monumenta­le oracolo, dall’interpretazione del quale si sarebbe potuto desumere tutto ciò che c’era da sapere sui destini dell’uomo. Si è così giunti ad attribuirle profezie che si spingono fino alla nostra epoca e oltre, col­locando nel terzo millennio (secondo alcuni all’inizio, secondo altri verso il 2900) la fine dei tempi.

Il che parrebbe accomunarle ad altre apocalissi, che intorno alle medesime scadenze collocano il giudizio finale. Costituiscono nel loro insieme, tra questi calendari escatologici, il più antico, risalendo la costruzione della piramide almeno al regno di Cheope, quindi alla quarta dinastia, ventisei-ventisette secoli prima di Cristo.

 

La Bibbia di pietra

Enorme fu l’interesse di storici, letterati, astronomi e matematici dell’antichità per la piramide di Giza. Erodoto di Alicarnasso, che la visitò intorno al 450 avanti Crìsto, raccolse dalle sue guide informa­zioni particolareggiate sulla mano d’opera e sui tempi impiegati per la realizzazione, che valuta in un ventennio. Eratostene di Cirene, due secoli dopo, effettuò in concomitanza con lo studio della piramide ricerche astronomiche dalle quali ricavò per la prima volta la circon­ferenza della terra. Calcolò nell’ambito dei medesimi studi l’angolo di inclinazione dell’ellittica sull’equatore, valutandolo in 23 gradi e 51 primi, e l’arco di meridiano compreso tra i tropici, attribuendogli un valore di 47 gradi e 42 primi, con uno scarto di soli due primi da quello poi accertato (venti secoli dopo) dall’Accademia delle scienze di Parigi.

Ne parlarono in vario modo Strabone, Plutarco, Diodoro Siculo, Porfirio, Giamblico e altri maestri mediterranei. Le dedicò una parti­colare attenzione lo storico egiziano Manetone, sacerdote e scriba del III secolo avanti Cristo, nel redigere per incarico di re Tolomeo II Filadelfo il suo trattato in greco sull’antica civiltà del Nilo (Aygiptia­ka), elaborando tra l’altro la teoria storiografica (tuttora accettata) della suddivisione dei sovrani d’Egitto in trenta dinastie. Diede testi­monianza della sua opera, andata perduta, lo storico ebreo Giuseppe Flavio, sul finire del I secolo dell’era cristiana, citandone essenziali frammenti nelle sue Antichità giudaiche.

Va però rilevato che, nonostante la fama della Grande Piramide nel mondo antico, dove fu celebrata come la prima tra le sette meravi­glie,2 soltanto in età moderna ebbero inizio e sviluppo, dopo la cam­pagna napoleonica del 1798, le ricerche volte a un’analisi sistematica dei suoi segreti.

Furono infatti gli artisti e gli scienziati al seguito dell’armata france­se — grazie anche alla creazione, voluta da Napoleone, di un Institut d’Egypte al Cairo — a suscitare in Europa quella diffusa curiosità per le antichità egiziane che avrebbe dato vita ai moderni studi di egitto­logia. Prese così l’avvio, sull’onda di una crescente popolarità, l’e­splorazione metodica della maggiore tra le piramidi: se ne studiò il tracciato interno e se ne calcolarono i volumi, le distanze, le propor­zioni. Decollarono contemporaneamente quei tentativi d’interpretare simboli e geroglifici che sarebbero culminati con la decrittazione — nel 1821, da parte di Jean-Francois Champollion — della stele di Rosetta, chiave della perduta scrittura egizia.

All’interesse scientifico si andò presto intrecciando e sovrapponen­do, però, una diffusa propensione a leggere in una prospettiva esoteri­ca le caratteristiche della piramide, ricercando nelle sue misure (e nella disposizione delle gallerie, delle camere, dei volumi) significati che andassero al di là della funzionalità strettamente architettonica e funeraria del progetto.

Contribuirono ad accreditare la Grande Piramide come una sorta di apocalisse di pietra, contenente rivelazioni analoghe per certi aspetti a quelle dell’evangelista Giovanni, rilievi dai quali parve dedursi che le sue misure corrispondessero a quelle indicate nella Bibbia per il tempio di Salomone. Parve potersi sostenere, in specie, che la camera sacra del tempio, o Camera dell’Oracolo, avesse la stessa capacità cubica della Camera del Re, al centro della piramide. Parve infine potersi calcolare che il volume del sarcofago reale fosse identico a quello dei vasi di bronzo fatti fondere per il tempio da Hiram, re di Tiro, fornitore di mano d’opera e materiali per la sua costruzione.3

Si fecero analoghi raffronti con le misure relative all’Arca dell’Al­leanza, nella quale erano state riposte da Mosè le tavole della legge. E anche in questo caso parvero potersi rilevare curiose analogie volu­metriche con il sarcofago.

E’ detto nel libro dell’Esodo (37, 1) che l’Arca era lunga due cubiti e mezzo, larga un cubito e mezzo, alta un cubito e mezzo. E detto nel primo libro déi Re (6, 2-20) che il tempio fatto costruire da Salomone misurava sessanta cubiti di lunghezza, venti di larghezza e trenta di altezza; e che la stanza dell’Oracolo al suo interno era di venti cubiti per venti per venti.

Il cubito era una misura aleatoria, variabile da popolo a popolo. Quello greco-romano era di circa 44 centimetri, quello egizio varia­va dai 52 centimetri del cubito reale (meah suten) ai 38 del cubito piramidale (menez). Ogni gente del Mediterraneo aveva il proprio. C’era poi quello usato dagli astronomi arabi, commisurato alla distanza apparente tra Castore e Polluce nella costellazione dei Gemelli (cubito maggiore) oppure tra Procione e altre stelle del Cane (minore).

Del tutto incerta era (e rimane tuttora) la misura del cubito ebraico, suddiviso in palmi e dita. Ce n’erano almeno quattro versioni: da 52, da 48, da 46, da 38 centimetri circa. Non passò inosservata la coinci­denza della massima e della minima con le due unità egizie. Ciò faci­litò certamente i raffronti, ma pose ulteriori interrogativi su questa curiosa equivalenza tra i parametri utilizzati dagli architetti delle due civiltà. Che potrebbe anche spiegarsi (razionalmente) con la schiavitù in Egitto del popolo ebraico, asservito a lavori di massa che compor­tavano uno stretto contatto con operai e tecnici dell’edilizia, quindi l’apprendimento di nozioni d’uso comune nell’opera svolta.

 

Il “pollice polare”

Molti furono gli orientamenti seguiti nel secolo scorso dai propu­gnatori di un’archeologia teosofica, tendente a ricercare nella geome­tria dell’architettura egizia la chiave di futuri misteri, ma le teorie che per la loro originalità spazzarono via tutte le altre furono elaborate da un matematico e da un astronomo, l’inglese Robert Taylor e lo scoz­zese Piazzi Smyth. Il primo effettuò nel 1850 un frazionamento del cubito piramidale, ricavandone una unità denominata “pollice pola­re”, sulla base della quale effettuare le misurazioni volte a desumere dai dettagli architettonici il messaggio occulto. Il secondo, dopo numerosi sopralluoghi e ricerche nella Grande Piramide, giunse nel 1865 alla conclusione che il suo percorso interno si articolasse secon­do una successione temporale; e che ogni corridoio,stanza, cunico­lo, corrispondesse un periodo storico.

Come quello di Taylor, il ragionamento di Piazzi Smyth era suffra­gato dalla meticolosa precisione dei calcoli volti a stabilire una com­parazione dettagliata tra le misure dei vari spazi e l’epoca di riferi­mento. Quel che contava, da un punto di vista scientifico, era l’esat­tezza della planimetria da lui tracciata, per la quale venne caldamente elogiato anche da esperti che respingevano ogni interpretazione arca­na, come Ernest Wallis Budge, egittologo del British Museum, e Flinders Patrick, archeologo di grande fama, che volle ripetere le misurazioni rilevando sull’intero percorso una variante minima, di una, settantina di pollici, equivalenti a meno di due metri.

Abbracciarono le tesi di Piazzi Smyth esoteristi e teosofi, che sulla mappa da lui elaborata ricostruirono la storia passata del mondo, giunsero al tempo presente, azzardarono rovinose previsioni per l’av­venire. Ne furono appassionati divulgatori, negli anni Venti di questo secolo XX, gli scrittori Davidson e Morton Edgar.

Continua…

 

1 La piramide di Cheope misura 146 metri d’altezza (equivalenti a 270 passi egiziani, unità di misura usata dagli architetti dell’epoca) e 230 per ciascuno dei quattro lati di base (424 passi egiziani). La superficie della base è di 53.111 metri quadrati (180.000 passi quadrati). È costituita di blocchi di calcare, pesanti dalle due alle dieci tonnellate ciascuno, per un peso complessivo di sei milioni e mezzo di tonnellate e un volume di due milioni e seicentomila metri cubi circa.

2 Le altre sei, secondo la classificazione attribuita a Filone di Bisanzio o Plinio il Vecchio, erano: il monumento funebre del tiranno Mausolo, donde il termine mausoleo, ad Alicarnasso, decorato da sculture di Prassitele; la statua di Zeus in trono ad Olimpia, scolpita da Fidia e ricoperta di lamine d’oro, avorio e pietre preziose; il tempio di Diana Artemisia a Efeso, retto da centoventisette colonne di diciotto metri d’altezza e centocinquanta tonnellate di peso cia­scuna; il faro di Alessandria, celebre non soltanto per l’eccezionale altezza di centoventi metri ma per le sue tecnologie, fondate sull’uso combinato di specchi; i giardini pensili di Babilonia, realizzati su terrazze sovrapposte a una distanza di quindici metri l’una dall’altra, per un’altez­za complessiva di novanta metri; il Colosso di Rodi, sotto le cui gambe spalancate all’ingresso del porto potevano passare navi con la velatura spiegata.

3 Hiram è anche il nome dell’architetto che sovrintese ai lavori del tempio, venendo poi ucci­so da tre operai infedeli. La sua leggenda e al centro della dottrina massonica.