Tratto
da:
Le
Grandi
Profezie
Autore
Franco
Cuomo
Newton &
Compton
Editori
Don
Bosco,
profeta
in sogno
Il dono
della
profezia
si
esprime
nei
santi
attraverso
l'estasi,
l'apparizione
rivelatrice,
la
percezione
di voci.
Costituì
una
significativa
eccezione
a questa
regola
san
Giovanni
Bosco,
profeta
per
eccellenza
tra le
grandi
figure
religiose
dell'età
moderna,
che ebbe
le sue
visioni
quasi
esclusivamente
in
sogno.
Tanto da
far dire
al suo
principale
biografo,
il
sacerdote
Lemoyne,
che «il
nome di
Don
Bosco e
la
parola
sogno
sono
correlativi».
Le morti
annunciate
I sogni
di Don
Bosco
furono
essenzialmente
di tre
specie:
quelli
che
riguardavano
lui,
quelli
che
riguardavano
gli
altri (e
furono i
più
tremendi,
data la
sua
propensione
a
"vedere"
in sogno
la morte
di
coloro
che
conosceva,
indovinandone
in molti
casi la
data) e
quelli
relativi
ai
grandi
eventi
storici.
A questi
ultimi
vanno
accomunati
certi
spettacolari
sogni
simbolici
sui
destini
della
Chiesa e
dell'umanità
intera,
vere e
proprie
saghe
oniriche
d'ispirazione
apocalittica.
Sognò
fin da
ragazzo,
per
quanto
riguardava
se
stesso,
che si
sarebbe
fatto
prete e
che
avrebbe
fondato
congregazioni
religiose;1
sognò
che si
sarebbe
preso
cura dei
giovani,
tramutando
molti
potenziali
lupi in
agnelli;
sognò
con
quali
mezzi
avrebbe
realizzato
il suo
progetto;
sognò in
quale
città si
sarebbe
dovuto
recare
per
poterlo
intraprendere.
Sognò
cose che
si
sarebbero
avverate
per
oltre
sessant'anni,
dalla
più
tenera
adolescenza
(il suo
primo
sogno
premonitore,
sulla
missione
cui si
sentiva
chiamato,
lo ebbe
a nove
anni,
nel
1824)
fino
alla
morte,
sopravvenuta
il 3
gennaio
1888 a
Torino.
Ma i
sogni
che gli
procurarono
una
straordinaria
fama di
veggente
per
certi
aspetti
sinistra,
anche se
compensata
da una
bontà
innata e
prorompente,
mai
disgiunta
dalla
volontà
pratica
di
tradurne
gli
effetti
in opere
concrete
- furono
quelli
nei
quali
previde
la fine
di tante
persone,
soprattutto
tra i
suoi
allievi.
Ci sono
documenti
scritti
di
queste
sue
premonizioni,
come
l'appunto
preso
nel 1864
dall'infermiere
dell'oratorio,
al quale
aveva
confidato
l'imminente
morte di
due
giovani
apprendisti.
Eccone
il
testo:
«Oratorio
di San
Francesco
di Sales,
30
gennaio
1864.
Don
Bosco mi
disse la
sera del
29
gennaio:
caro
Moncardi,
due sono
gli
artigiani
che
prima
del
finire
della
prossima
quaresima
dovranno
andare
in
paradiso, Tarditi
e Palo.
Sta'
attento.
Moncardi
Ignazio,
infermiere».
Il
foglio
fu
riposto
dall'infermiere
in una
busta
chiusa e
consegnata
a padre
Alasonatti,
sacerdote
salesiano,
che
sopra vi
annotò:
«Da
aprirsi
dopo
Pasqua
1864».
All'apertura
della
busta la
profezia
era
avverata:
Palo era
morto il
26
febbraio,
Tarditi
il 12
marzo,
quindici
giorni
prima
della
Pasqua,
che
quell'anno
cadeva
il 27 di
marzo.
Testimonianza
di un
episodio
analogo
fu resa
da due
suoi
allievi,
Giuseppe
Buzzetti
e
Modesto
Davico,
che
raccontarono
di
essere
stati
esortati
un
giorno
da Don
Bosco,
improvvisamente,
a
inginocchiarsi
e
pregare
«per
quello
dei
nostri
compagni
che
stanotte
morirà».
L'indomani
mattina,
nel dire
messa,
invitò
tutti
gli
apprendisti
a dire
un De
profundis
per uno
di essi,
tale
Rosario
Pappalardo,
morto
prima
dell'alba.
Predisse
allo
stesso
modo la
morte di
altri
giovani
dell'oratorio,
come
Marchisio,
Foranzio,
Maestri,
indicando
spesso
la data
del
decesso.
A un
ragazzo
di nome
Francesco
Dalmazzo
disse
che
sarebbe
vissuto
quarantanove
anni e
si
sarebbe
fatto
prete:
«Starai
all'oratorio
con me»,
aggiunse,
«e dopo
la mia
morte
sarai
fatto
canonico».
E tutto
andò
esattamente
così:
padre
Dalmazzo,
divenuto
canonico
e
rettore
del
seminario
di
Catanzaro
dopo la
fine di
Don
Bosco,
morì
quarantanovenne,
il 10
marzo
1895.
Identica
previsione
fece per
un altro
sacerdote,
don
Pietro
Cogliolo,
al quale
disse
che
sarebbe
vissuto
cinquantasette
anni,
come
realmente
accadde.
Ma la
più
sorprendente
di
queste
predizioni
all'apparenza
lugubri,
che però
lui
considerava
utili
per
coloro
cui si
riferivano,
ponendoli
in
condizione
di
giungere
preparati
al
trapasso,
la fece
al
piccolo
Michele
Rua,
destinato
a
divenire
suo
stretto
collaboratore.
Notò il
bambino
la prima
volta
che
venne in
oratorio
e, dopo
averlo
guardato
attentamente,
gli
prese
una
manina
tra le
proprie,
facendo
segno di
dividerla
in due.
Non gli
spiegò
lì per
lì il
significato
di
questo
gesto,
ma in
seguito,
avendoglielo
lui
chiesto
esplicitamente,
disse:
«Significa,
Michelino,
che tu
con Don
Bosco
farai
sempre a
metà».
E con
Don
Bosco,
crescendo,
Michele
Rua
divise
molte
cose, a
cominciare
dal
lavoro
dell'oratorio,
fino a
divenire
il suo
più
fedele
assistente,
il suo
chierico,
il suo
vicario,
il suo
successore.
Divise
infine
la
morte,
spirando
alla
medesima
età in
cui era
morto il
suo
maestro,
nel
medesimo
luogo e
del
medesimo
male.
Gli
«avvisi»
del
Signore
La
spontaneità
con cui
Don
Bosco
era
solito
comunicare
agli
interessati
certe
profezie,
convinto
probabilmente
che
conoscere
la data
della
propria
morte
potesse
essere
per un
cristiano
un
privilegio,
gli
procurò
talvolta
dei
fastidi.
Come
quando
il
questore
di
Torino
lo
invitò
ad
astenersi
dal
parlare
delle
future
morti,
trattandosi
di
notizie
che
potevano
provocare
turbamento
e che
comunque
non
erano
certe.
A
quest'ultima
obiezione
Don
Bosco
replicò
che non
gli era
mai
successo
di
annunciare
una
morte
che non
si fosse
poi
verificata
alla
scadenza
prevista.
E per
dimostrarlo
disse al
questore
il nome
di un
suo
subordinato
di soli
ventisei
anni,
Giovanni
Boggero,
destinato
a morire
in breve
tempo.
Il
questore,
considerate
l'ottima
salute
del
Boggero
e la sua
giovane
età, si
permise
di
dubitarne.
Fu
smentito
dai
fatti
entro
tre
mesi.
Si
guardò,
dopo di
allora,
dal
diffidare
ancora
il
sacerdote
come
fosse un
qualsiasi
ciarlatano.
Non
bisogna
però
ritenere
che
questa
funerea
particolarità
del dono
profetico
di Don
Bosco
fosse da
lui
accettata
con
spirito
leggero.
Al
contrario,
gli
procurava
emozioni
dolorose,
ma
soprattutto,
inizialmente,
seri
dubbi
sulla
credibilità
di
quanto
"vedeva"
in sogno
e sulla
opportunità
di
raccontarlo.
Lui
stesso
ammise
quanto
fosse
stata
lenta e
travagliata
l'evoluzione
del modo
di
gestire
da parte
sua tali
profezie:
«Raccontando
questi
sogni,
annunciando
morti
imminenti,
predicendo
il
futuro,
più
volte
ero
rimasto
nell'incertezza,
non
fidandomi
di aver
compreso
e
temendo
di dire
bugie
[...]
Solo
anni
dopo,
quando
morì il
giovane
Casalegno
e lo
vidi
nella
cassa,
sopra
due
sedie
nel
portico,
precisamente
come in
sogno,
allora
non
esitai
più a
credere
fermamente
che quei
sogni
fossero
avvisi
del
Signore».
Tanti
«grandi
funerali»
a corte
Le
profezie
di Don
Bosco
sui
lutti a
venire
coinvolsero
anche,
in modo
ripetuto
e
drammatico,
la casa
Savoia,
provocando
al
sovrano
turbamenti
per i
quali il
veggente
venne
ammonito.
Avvenne
la prima
volta
nel
1854, in
una
circostanza
che rese
ancora
più
sgradevole
l'annuncio,
visto
che il
parlamento
cisalpino
stava
per
votare
le leggi
sull'abolizione
di certi
ordini
religiosi
e la
profezia
poteva
sembrare
una
intimidazione
ecclesiastica.
Sta di
fatto
che Don
Bosco,
dopo
avere
sognato
diverse
volte un
valletto
che
annunciava
dapprima
«un gran
funerale»,
poi
«grandi
funerali
a
corte»,
scrisse
ben due
lettere
a
Vittorio
Emanuele
II
informandolo
che
sulla
casa
regnante
era
stesa
«la mano
della
morte».
Ricevette
per due
volte la
visita
di un
fiduciario
del re,
il
marchese
Domenico Fassati,
che lo
redarguì
severamente,
diffidandolo
dal
persistere
nei suoi
vaticini.
Non ne
fu
impressionato,
e in
tutta
serenità
rispose
che «la
verità
in certi
casi non
si può
né si
deve
nascondere».
Morivano
di lì a
poco la
regina
madre
Maria
Teresa,
vedova
di Carlo
Alberto,
il 12
gennaio
1855, e
otto
giorni
dopo la
regina
Maria
Adelaide,
consorte
di
Vittorio
Emanuele,
a
trentatré
anni di
età.
Moriva
la
stessa
sera il
fratello
del re,
Ferdinando
Maria
Alberto,
duca di
Genova,
anche
lui a
trentatré
anni.
Moriva
infine
il 17
maggio,
pochi
giorni
prima
che il
re
firmasse
la legge
sugli
ordini
religiosi,
il
principino
Vittorio
Emanuele
Leopoldo,
di soli
quattro
mesi,
che
nascendo
aveva
provocato
la morte
di Maria
Adelaide.
Annichilito
da tutti
questi
«grandi
funerali
a
corte»,
il re
volle
recarsi
personalmente
all'oratorio
salesiano
e
conferire
con Don
Bosco,
del
quale
divenne
un
devoto
estimatore.
Tanto da
esprimere
la
convinzione
che si
trattasse
di un
santo,
decisamente
insolita
per un
sovrano
di poca
fede
quale
aveva
sempre
dimostrato
di
essere.
Anche di
Vittorio
Emanuele
il
sacerdote
"vide"
la fine,
a Natale
del
1877. Si
guardò
però dal
fare
pubbliche
dichiarazioni,
limitandosi
a
esortare
i fedeli
a
pregare
per il
re, che
il 9
gennaio
successivo
si
spense
per una
improvvisa
polmonite.
"Vide"
nello
stesso
sogno la
morte di
Pio IX,
che
seguì un
mese
dopo la
sorte
del
sovrano.
Non fu
questa
l'ultima
sua
profezia
sulla
casa
regnante.
Predisse,
dopo la
morte di
Vittorio
Emanuele,
che i
suoi
eredi
avrebbero
tenuto
lo
scettro
per tre
sole
generazioni,
e non
oltre.
Altre
dinastie,
oltre
quella
di
Savoia,
ebbero
da Don
Bosco
impietosi
pronostici
sul
proprio
futuro.
L'ex re
di
Napoli,
Francesco
II di
Borbone,
esule a
Roma,
che
aveva
voluto
incontrarlo
per
chiedergli
quando
avrebbe
riconquistato
il suo
trono,
si sentì
rispondere:
«Voi non
lo
riavrete
mai più
il
vostro
trono, e
nemmeno
rivedrete
mai più
Napoli».
Scrisse
di suo
pugno,
su di un
foglio
che si
conserva
presso
l'archivio
dell'istituto
salesiano
di San
Severo,
in
Puglia,
una
profezia
sulla
fine
degli
Asburgo:
«Quando
l'aquila
bicipite
scenderà
nella
tomba,
l'aquilotto
sarà
sbalzato
dal
trono».
La
profezia
risale
agli
ultimi
anni di
vita del
santo.
Era
imperatore
d'Austria-Ungheria
Francesco
Giuseppe.
Sarebbe
sceso
nella
tomba
nel
1916,
lasciando
all'«aquilotto»
Carlo
appena
il tempo
di
sedere
sul
trono
per
esserne
sbalzato
via.
Segnali
di fuoco
Pur
prediligendo
la
visione
onirica,
le
profezie
di Don
Bosco
trovarono
anche
altri
modi per
esprimersi.
Famose
rimangono
le
rivelazioni
da lui
avute
attraverso
il
manifestarsi
di
lingue
di fuoco
in
momenti
di
particolare
tensione
interiore.
Gli
accadde
una
volta,
mentre
era
intento
agli
esercizi
spirituali
con
alcuni
devoti,
di
restare
come
paralizzato
dopo
avere
recitato
un De
profundis
e di
vedere
oscillare
a
mezz'aria
sull'altare
due
fiamme
simili a
quelle
ricorrenti
nell'iconografia
pentecostale.
In
corrispondenza
dell'una
era
apparsa
la
scritta
«apostasia»,
in
corrispondenza
dell'altra
«morte».
Dopo di
che i
due
fuochi
vorticarono
in
direzione
dei
fedeli
raccolti
in
preghiera
per poi
fermarsi
sul capo
di due
di essi:
quello
con la
scritta
«morte»
sopra la
testa di
un
aristocratico
e
l'altro
su di un
commerciante,
noto per
la sua
profonda
devozione.
Quest'ultimo,
in un
breve
lasso di
tempo,
ebbe una
crisi
religiosa
e
abbracciò
la fede
protestante.
Il
nobile
morì.
Una
lingua
di
fuoco,
allo
stesso
modo,
fece
riconoscere
a Don
Bosco un
giovane
francese,
che non
aveva
mai
visto
prima,
come un
predestinato
alla
vita
ecclesiastica.
Questi
si era
recato
nella
chiesa
di Maria
Ausiliatrice
per
incontrarlo
allo
scopo di
chiedergli
consiglio
sull'eventualità
di farsi
sacerdote,
senza
avergli
però
preannunciato
la sua
visita.
Ma non
appena
Don
Bosco lo
vide,
illuminato
dalla
mistica
fiammella,
lo
trasse
in
disparte,
rivolgendogli
in
francese
le
risposte
che lui,
senza
avere
ancora
formulato
alcuna
domanda,
si
aspettava.
Questo
giovane
si
chiamava
Antoine
Malan.
Divenne
salesiano,
poi
missionario
e infine
vescovo.
Tali
episodi,
per
quanto
stupefacenti,
non
ebbero
comunque
una
speciale
influenza
sul
riconoscimento
della
santità
di
Giovanni
Bosco da
parte
della
Chiesa,
nel
1934.
Furono
infatti
privilegiati,
nel
giudizio
di
canonizzazione,
i suoi
grandi
meriti
di
educatore,
che lo
portarono
a
prendersi
cura di
migliaia
di
ragazzi
poveri e
disadattati,
fondando
per essi
scuole
professionali
e
collegi.2
Più
degli
aspetti
mistici
e
visionari
della
sua
personalità
contò
dunque,
ai fini
dell'aureola,
la sua
sensibilità
sociale,
che lo
indusse
tra
l'altro
a
promuovere
un'intensa
attività
missionaria
in una
nuova
ottica
umanitaria,
come
attività
di
servizio
verso i
popoli
più
bisognosi
di
assistenza
materiale
oltre
che
spirituale.
Le
profezie
di Don
Bosco,
in altre
parole,
sono da
un punto
di vista
ecclesiastico
un
optional.
Ci si
può
credere
oppure
no, dare
loro una
valenza
miracolosa
o
considerarle
come
propaggine
psicologica
di una
personalità
ultrasensibile.
Nell'uno
e
nell'altro
caso non
ne
vengono
scalfiti
né
accresciuti
gli
elementi
sui
quali la
Chiesa
(e la
storia)
ha
fondato
il suo
giudizio.
Due
pleniluni
per
un'«iride
di pace»
Al di là
delle
tante
premonizioni
di
interesse
individuale,
si
attribuiscono
a Don
Bosco
molteplici
profezie
di
significato
storico
universale,
che
velano
dietro
un
linguaggio
fortemente
simbolico
indicazioni
precise,
atte a
consentire
il
riconoscimento
dei
fatti e
del
periodo
cui
alludono.
C'è una
profezia
piena di
speranza
per
l'umanità,
secondo
la quale
«il
peccato
avrà
fine» e
si
aprirà
un
processo
di pace
destinato
a
concludersi
con
l'apparizione
sul
mondo di
«un sole
così
luminoso
quale
non fu
mai,
dalle
fiamme
del
Cenacolo
fino a
oggi, né
più si
vedrà
fino
all'ultimo
dei
giorni».
Quando?
Un
dettaglio
indurrebbe
a
ritenere
che il
processo,
destinato
evidentemente
a
compiersi
su tempi
lunghi,
sia già
iniziato.
E detto
infatti
nel
testo
del
messaggio
che
«l'iride
di pace»
sarebbe
comparsa
sulla
terra
«prima
che
trascorrano
due
pleniluni
nel mese
dei
fiori».
Non è un
fenomeno
comune
la
concomitanza
di due
pleniluni
in uno
stesse
mese, e
l'ultima
volta
che si è
verificato
a maggio
(il
«mese
dei
fiori»,
dedicato
peraltro
alla
Vergine,
che Don
Bosco
amava
con
speciale
trasporto)
è stato
nel
1988. In
coincidenza
cioè con
i fatti
che
portarono
alla
disgregazione
dell'impero
sovietico,
all'abbattimento
del muro
di
Berlino
e via
dicendo,
preconizzati
oltre
tutto
nel
secondo
messaggio
di
Fatima.
Riferimenti
al
comunismo
ricorrono
in altre
profezie
di Don
Bosco,
quali
quella
detta
"del
cavallo
rosso",
nella
quale si
assiste
all'irrompere
di una
diabolica
bestia
nell'oratorio,
con un
tale
impeto
da
terrorizzare
i
ragazzi
fino
allora
sereni e
metterli
in fuga.
Era «un
cavallo
rosso
che
correva
velocemente
verso di
essi,
con
criniera
al
vento,
le
orecchie
diritte
e gli
occhi
corruscati,
correva
così
veloce
da
sembrare
che
avesse
le ali».
In sogno
il
sacerdote
si
chiedeva
se non
fosse
«un
demonio
sbucato
dagli
abissi
infernali».
Gli
rispondeva
una
voce: «E
un
cavallo
dell'Apocalisse».
La
visione
venne
comunemente
interpretata
come una
raffigurazione
della
«democrazia
settaria»
(è
l'espressione
usata
dal
biografo
Lemoyne,
già
citato)
che
avanzava
nel
tentativo
di
imporsi
«sui
governi,
sulle
scuole,
sui
municipi
e sui
tribunali».
La fuga
dei
ragazzi
dell'oratorio
era il
segno
della
sua
«opera
devastatrice
a danno
dell'ordine
sociale,
della
società
religiosa,
dei pii
istituti
e del
diritto
di
proprietà
privata».
Altre
bestie
in altri
sogni
assolvono
a una
medesima
funzione
simbolica.
Una
volta è
un rospo
gigantesco,
contrassegnato
anch'esso
da un
emblematico
segno
rosso.
Un'altra
sono i
cavalli
dei
cosacchi
che si
abbeverano
nelle
fontane
di San
Pietro.
È forse
la più
popolare
delle
immagini
trasmesse
alla
posterità
da Don
Bosco, e
non va
naturalmente
intesa
in senso
realistico.
Quei
cosacchi
e quei
loro
cavalli
-e il
luogo
nel
quale si
abbeverano
- sono
la
metafora
di
qualcos'altro,
che va
oltre la
paura
fobica
del
comunismo,
anche se
in
superficie
rimane
questa
l'interpretazione
più
comune,
spesso
allo
scopo di
suscitare
facili
ironie.
Appare
molto
più
plausibile
che il
veggente
abbia
voluto
alludere
in
questo
modo al
decadimento
della
Chiesa
contemporanea,
intiepidita
nelle
sue
tradizioni
e nei
suoi
riti.
Letta in
tal
senso,
la
profezia
appare
più
verosimilmente
rivolta
a
stigmatizzare
- come
altri
oracoli
non
sospettabili
di
ambiguità
o
malafede,
anche
nell'ambito
mariano
-certe
forme di
cedimento
ideologico
e di
compromesso
da parte
di un
clero
forse
condizionato
al suo
stesso
interno
da
striscianti
pulsioni
anticristiane.
Accredita
tale
lettura
lo zelo
con cui
Don
Bosco si
fa
portavoce
di Dio,
in altra
profezia,
contro
l'inerzia
di
questi
preti,
pigri
nella
migliore
delle
ipotesi,
corrotti
nella
peggiore:
«Perché
non
correte
a
piangere
tra il
vestibolo
e
l'altare?...
Perché
non
andate
sopra i
tetti,
nelle
case,
nelle
vie,
nelle
piazze e
in ogni
luogo,
anche
inaccessibile,
a
portare
il seme
della
parola
divina?...».
È la
Chiesa
della
lotta
contro
il male,
non
dell'acquiescenza
e del
calcolo
politico,
che Don
Bosco
"vede"
navigare
in un
apocalittico
scenario
marino,
maestosa,
bene
armata,
alla
testa di
una
grande
flotta,
ma con
il vento
contrario,
in una
tempesta
che
«sembrava
favorire
i
nemici».
Fino a
quando,
ispirato
dalla
vista di
una
colonna
contrassegnata
dal nome
di Maria
Ausiliatrice
e di
un'altra
sulla
quale
splendeva
un'eucarestia,
il
comandante
supremo
pensò
per
battere
il
furore
dei
nemici
di
«convocare
intorno
a sé i
piloti
delle
navi
secondarie
e tenere
consiglio
sul da
farsi».
Si diede
quindi
battaglia,
e «il
pontefice
si pose
al
timone
per
portare
la nave
verso le
due
colonne».
La lotta
fu
feroce e
«molte
navi
avversarie
sprofondavano
nel
mare»,
ma a un
tratto
«il
pontefice
resta
ferito e
cade con
onore:
sollecitamente
soccorso,
colpito
per la
seconda
volta,
ricade e
muore».
Ma
mentre
sulle
navi
dell'anticristo
già si
grida
vittoria,
subentra
un nuovo
pontefice,
che
«supera
ogni
ostacolo
e guida
la nave
alle
colonne»,
mentre i
vascelli
avversari
si
disperdono
e
affondano
speronandosi
a
vicenda.
Si sono
voluti
cercare
in
questo
epico
sogno
d'ispirazione
millenarista,
volto a
descrivere
la
Chiesa
degli
ultimi
tempi,
aggredita
ma
infine
trionfante,
quanti
più
riscontri
possibile
sulla
storia
recente
del
papato e
previsioni
per
quella
futura.
Si è
tentato
di
riconoscere
nella
riunione
con i
comandanti
delle
navi
gregarie
il
concilio
Vaticano
II, teso
a
imprimere
una
svolta
decisiva
nella
conduzione
della
flotta;
nel
primo
ferimento
del
pontefice
l'attentato
di Ali
Agca,
cui però
dovrebbe
seguirne
un
secondo,
mortale,
non
necessariamente
nei suoi
stessi
confronti
ma del
successore;
nella
colonna
di Maria
Ausiliatrice
un
riferimento
alla M
voluta
per
devozione
mariana
da
Giovanni
Paolo lI
sul
proprio
stemma;
nei
venti e
nell'azione
violenta
dei
nemici
le
perturbazioni
e gli
ostacoli
contro
cui ha
dovuto
battersi
e
tuttora
si batte
la
Chiesa
di fine
millennio.
Tutto
questo è
però
relativo.
Ciò che
conta è
l'evidenza
dei
significati
di fondo
dell'affresco,
che
raffigura
la
comunità
cristiana
in lotta
per la
propria
libertà
e
sopravvivenza,
con
giusta
magnificenza
di armi
e di
equipaggi.
È una
chiave
per
poter
accedere
al senso
effettivo
di altre
profezie,
all'apparenza
banali.
«Distrazioni»
e vita
breve di
Domenico
Savio
C'è uno
dei
ragazzi
di Don
Bosco
che, per
essere
stato
come lui
dotato
di
spirito
profetico
e per
avergli
lasciato
un
ricordo
tale da
indurlo
a
scriverne
la vita,
non può
qui
essere
ignorato:
è
Domenico
Savio,
convittore
nell'oratorio
salesiano
di
Torino,
morto
nel 1857
all'età
di
quindici
anni.
Ciò che
si sa di
lui lo
si sa
principalmente
dal
maestro,
che nel
giro di
due anni
pubblicò
sulle
«Letture
cattoliche»
una
commossa
biografia
dell'allievo,
poi
ampliata
e
ristampata
più
volte.3
La vita
fu con
Domenico
prodiga,
nella
sua
brevità,
di
estasi e
momenti
di
grande
beatitudine,
nel
corso
dei
quali
ebbe
visioni
giudicate
di
notevole
interesse
da Don
Bosco,
esperto
ineguagliabile
in
materia.
Aveva
reticenza
a
parlarne,
chiamandole
semplicemente
«distrazioni».
Di una
in
particolare,
però,
espresse
il
desiderio
che il
papa
venisse
informato,
trattandosi
di una
questione
attinente
la
conversione
al
cattolicesimo
di un
intero
paese.
Lo
confidò
a Don
Bosco,
in
questi
termini:
«Vorrei
dire a
Sua
Santità,
se
potessi
parlargli,
di non
smettere
mai di
occuparsi
con
particolare
sollecitudine
dell'Inghilterra,
poiché
Dio sta
preparando
un gran
trionfo
del
cattolicesimo
in quel
regno».
Gli
chiese
allora
il
sacerdote
su quali
elementi
fondasse
questa
convinzione,
e
Domenico,
prima di
rispondergli,
si
raccomandò
che la
cosa
restasse
tra
loro.
Avutane
l'assicurazione,
così
rispose,
fornendo
una
testimonianza
tecnicamente
preziosa
per la
conoscenza
dei modi
attraverso
cui era
solito
scivolare
dalla
preghiera
in
estasi e
dall'estasi
in
visione,
fino a
procurarsi
una
sorta di
trance
divinatoria:
«Il
mattino
del 7
settembre
scorso,
mentre
facevo
il
ringraziamento
dopo la
comunione
fui
preso da
una
forte
distrazione,
e mi
parve di
vedere
una
vastissima
pianura,
piena di
gente
avvolta
da una
densa
nebbia.
Camminavano
come
uomini
che,
avendo
smarrito
la via,
non
vedono
più dove
mettono
i piedi.
Questo
paese è
l'Inghilterra,
mi disse
qualcuno
che mi
stava
vicino
[Domenico
è dunque
parte, a
questo
punto,
della
sua
stessa
visione].
Mentre
stavo
per
chiedere
altre
cose
vidi il
sommo
pontefice,
così
come
l'avevo
visto
dipinto
in tanti
quadri.
Avanzava
verso
quella
immensa
turba di
gente,
maestosamente
vestito,
reggendo
tra le
mani una
luminosissima
fiaccola.
E più si
avvicinava,
più la
nebbia
andava
scomparendo
a quel
chiarore,
così che
gli
uomini
sembravano
avvolti
nella
luce di
mezzogiorno.
Quella
fiaccola
è la
religione
cattolica,
che deve
ancora
illuminare
gli
inglesi,
mi
spiegò
l'amico...».
E forse
non è un
dettaglio
da poco
la
presenza
in
questo
paesaggio
visionario
di un
amico
ignoto,
che alla
maniera
di
Virgilio
spiega
al
viaggiatore
estatico
tutto
quello
che c'è
da
sapere
sul
luogo in
cui si
trova e
sul fine
ultimo
della
profezia.
Questa
conversazione
tra Don
Bosco e
Domenico
Savio si
svolse
nel
settembre
1856.
Sei mesi
dopo, il
9 marzo
dell'anno
successivo,
Domenico
era
morto,
"distratto"
anche
nel
trapasso
da
meravigliose
visioni,
che
spirando
gli
fecero
dire al
padre,
come per
consolarlo
dell'immenso
dolore
che
mostrava:
«Papà
mio,
sapessi
che
bella
cosa io
vedo
mai...».
Il
ragazzo
se n'era
andato
senza
poter
realizzare
il
desiderio
di
comunicare
a Pio IX
il
vaticinio
sull'Inghilterra.
Lo fece
un anno
dopo Don
Bosco,
suscitando
nel papa
curiosità
e
intenerimento.
La
profezia
può oggi
leggersi
nella
prospettiva
del
disegno
ecumenico
verso il
quale
vanno
sempre
più
orientandosi
le
chiese
cristiane,
ma anche
in
riferimento
a una
specifica
crescita
dell'attenzione
anglicana,
più
volte
manifestata
in
questi
ultimi
tempi,
per la
cattolicità
romana.
Domenico
Savio fu
proclamato
santo
nel
centenario
della
morte da
Pio XII,
che lo
designò
patrono
degli
studenti.
è
considerato
nell'immaginario
liturgico
come "il
capolavoro
pedagogico"
di Don
Bosco.
1 Fondò
nel 1854
la
congregazione
dei
salesiani
e nel
1872
quella
femminile
di Maria
Ausiliatrice.
2 Illustrò
i suoi
metodi
educativi
nel
saggio
//
sistema
preventivo
nell'educazione
della
gioventù
(1877)
dimostrando
la
priorità
dell'azione
preventiva
su
quella
repressiva
e
l'importanza
della
formazione
tecnico-professionale.
3
«Letture
cattoliche»,
anno VI,
fascicolo
11,
1859. Si
ebbero
le prime
ristampe,
corredate
da
numerose
aggiunte,
nel 1860
e nel
1861. |