Tratto da: Le Grandi Profezie Autore Franco Cuomo
Newton & Compton Editori
 

Don Bosco, profeta in sogno 

Il dono della profezia si esprime nei santi attraverso l'estasi, l'apparizione rivelatrice, la percezione di voci. Costituì una significativa eccezione a questa regola san Giovanni Bosco, profeta per eccellenza tra le grandi figure religiose dell'età moderna, che ebbe le sue visioni quasi esclusivamente in sogno. Tanto da far dire al suo principale biografo, il sacerdote Lemoyne, che «il nome di Don Bosco e la parola sogno sono correlativi».

Le morti annunciate
I sogni di Don Bosco furono essenzialmente di tre specie: quelli che riguardavano lui, quelli che riguardavano gli altri (e furono i più tremendi, data la sua propensione a "vedere" in sogno la morte di coloro che conosceva, indovinandone in molti casi la data) e quelli relativi ai grandi eventi storici. A questi ultimi vanno accomunati certi spettacolari sogni simbolici sui destini della Chiesa e dell'umanità intera, vere e proprie saghe oniriche d'ispirazione apocalittica.
Sognò fin da ragazzo, per quanto riguardava se stesso, che si sarebbe fatto prete e che avrebbe fondato congregazioni religiose;1 sognò che si sarebbe preso cura dei giovani, tramutando molti potenziali lupi in agnelli; sognò con quali mezzi avrebbe realizzato il suo progetto; sognò in quale città si sarebbe dovuto recare per poterlo intraprendere. Sognò cose che si sarebbero avverate per oltre sessant'anni, dalla più tenera adolescenza (il suo primo sogno premonitore, sulla missione cui si sentiva chiamato, lo ebbe a nove anni, nel 1824) fino alla morte, sopravvenuta il 3 gennaio 1888 a Torino.
Ma i sogni che gli procurarono una straordinaria fama di veggente per certi aspetti sinistra, anche se compensata da una bontà innata e prorompente, mai disgiunta dalla volontà pratica di tradurne gli effetti in opere concrete - furono quelli nei quali previde la fine di tante persone, soprattutto tra i suoi allievi. Ci sono documenti scritti di queste sue premonizioni, come l'appunto preso nel 1864 dall'infermiere dell'oratorio, al quale aveva confidato l'imminente morte di due giovani apprendisti. Eccone il testo:
«Oratorio di San Francesco di Sales, 30 gennaio 1864. Don Bosco mi disse la sera del 29 gennaio: caro Moncardi, due sono gli artigiani che prima del finire della prossima quaresima dovranno andare in paradiso, Tarditi e Palo. Sta' attento. Moncardi Ignazio, infermiere».
Il foglio fu riposto dall'infermiere in una busta chiusa e consegnata a padre Alasonatti, sacerdote salesiano, che sopra vi annotò: «Da aprirsi dopo Pasqua 1864».
All'apertura della busta la profezia era avverata: Palo era morto il 26 febbraio, Tarditi il 12 marzo, quindici giorni prima della Pasqua, che quell'anno cadeva il 27 di marzo.
Testimonianza di un episodio analogo fu resa da due suoi allievi, Giuseppe Buzzetti e Modesto Davico, che raccontarono di essere stati esortati un giorno da Don Bosco, improvvisamente, a inginocchiarsi e pregare «per quello dei nostri compagni che stanotte morirà». L'indomani mattina, nel dire messa, invitò tutti gli apprendisti a dire un De profundis per uno di essi, tale Rosario Pappalardo, morto prima dell'alba.
Predisse allo stesso modo la morte di altri giovani dell'oratorio, come Marchisio, Foranzio, Maestri, indicando spesso la data del decesso. A un ragazzo di nome Francesco Dalmazzo disse che sarebbe vissuto quarantanove anni e si sarebbe fatto prete: «Starai all'oratorio con me», aggiunse, «e dopo la mia morte sarai fatto canonico». E tutto andò esattamente così: padre Dalmazzo, divenuto canonico e rettore del seminario di Catanzaro dopo la fine di Don Bosco, morì quarantanovenne, il 10 marzo 1895.
Identica previsione fece per un altro sacerdote, don Pietro Cogliolo, al quale disse che sarebbe vissuto cinquantasette anni, come realmente accadde. Ma la più sorprendente di queste predizioni all'apparenza lugubri, che però lui considerava utili per coloro cui si riferivano, ponendoli in condizione di giungere preparati al trapasso, la fece al piccolo Michele Rua, destinato a divenire suo stretto collaboratore.
Notò il bambino la prima volta che venne in oratorio e, dopo averlo guardato attentamente, gli prese una manina tra le proprie, facendo segno di dividerla in due. Non gli spiegò lì per lì il significato di questo gesto, ma in seguito, avendoglielo lui chiesto esplicitamente, disse: «Significa, Michelino, che tu con Don Bosco farai sempre a metà».
E con Don Bosco, crescendo, Michele Rua divise molte cose, a cominciare dal lavoro dell'oratorio, fino a divenire il suo più fedele assistente, il suo chierico, il suo vicario, il suo successore. Divise infine la morte, spirando alla medesima età in cui era morto il suo maestro, nel medesimo luogo e del medesimo male.

Gli «avvisi» del Signore
La spontaneità con cui Don Bosco era solito comunicare agli interessati certe profezie, convinto probabilmente che conoscere la data della propria morte potesse essere per un cristiano un privilegio, gli procurò talvolta dei fastidi. Come quando il questore di Torino lo invitò ad astenersi dal parlare delle future morti, trattandosi di notizie che potevano provocare turbamento e che comunque non erano certe.
A quest'ultima obiezione Don Bosco replicò che non gli era mai successo di annunciare una morte che non si fosse poi verificata alla scadenza prevista. E per dimostrarlo disse al questore il nome di un suo subordinato di soli ventisei anni, Giovanni Boggero, destinato a morire in breve tempo. Il questore, considerate l'ottima salute del Boggero e la sua giovane età, si permise di dubitarne. Fu smentito dai fatti entro tre mesi.
Si guardò, dopo di allora, dal diffidare ancora il sacerdote come fosse un qualsiasi ciarlatano.
Non bisogna però ritenere che questa funerea particolarità del dono profetico di Don Bosco fosse da lui accettata con spirito leggero. Al contrario, gli procurava emozioni dolorose, ma soprattutto, inizialmente, seri dubbi sulla credibilità di quanto "vedeva" in sogno e sulla opportunità di raccontarlo. Lui stesso ammise quanto fosse stata lenta e travagliata l'evoluzione del modo di gestire da parte sua tali profezie: «Raccontando questi sogni, annunciando morti imminenti, predicendo il futuro, più volte ero rimasto nell'incertezza, non fidandomi di aver compreso e temendo di dire bugie [...] Solo anni dopo, quando morì il giovane Casalegno e lo vidi nella cassa, sopra due sedie nel portico, precisamente come in sogno, allora non esitai più a credere fermamente che quei sogni fossero avvisi del Signore».

Tanti «grandi funerali» a corte
Le profezie di Don Bosco sui lutti a venire coinvolsero anche, in modo ripetuto e drammatico, la casa Savoia, provocando al sovrano turbamenti per i quali il veggente venne ammonito. Avvenne la prima volta nel 1854, in una circostanza che rese ancora più sgradevole l'annuncio, visto che il parlamento cisalpino stava per votare le leggi sull'abolizione di certi ordini religiosi e la profezia poteva sembrare una intimidazione ecclesiastica. Sta di fatto che Don Bosco, dopo avere sognato diverse volte un valletto che annunciava dapprima «un gran funerale», poi «grandi funerali a corte», scrisse ben due lettere a Vittorio Emanuele II informandolo che sulla casa regnante era stesa «la mano della morte». Ricevette per due volte la visita di un fiduciario del re, il marchese Domenico Fassati, che lo redarguì severamente, diffidandolo dal persistere nei suoi vaticini. Non ne fu impressionato, e in tutta serenità rispose che «la verità in certi casi non si può né si deve nascondere».
Morivano di lì a poco la regina madre Maria Teresa, vedova di Carlo Alberto, il 12 gennaio 1855, e otto giorni dopo la regina Maria Adelaide, consorte di Vittorio Emanuele, a trentatré anni di età. Moriva la stessa sera il fratello del re, Ferdinando Maria Alberto, duca di Genova, anche lui a trentatré anni. Moriva infine il 17 maggio, pochi giorni prima che il re firmasse la legge sugli ordini religiosi, il principino Vittorio Emanuele Leopoldo, di soli quattro mesi, che nascendo aveva provocato la morte di Maria Adelaide.
Annichilito da tutti questi «grandi funerali a corte», il re volle recarsi personalmente all'oratorio salesiano e conferire con Don Bosco, del quale divenne un devoto estimatore. Tanto da esprimere la convinzione che si trattasse di un santo, decisamente insolita per un sovrano di poca fede quale aveva sempre dimostrato di essere.
Anche di Vittorio Emanuele il sacerdote "vide" la fine, a Natale del 1877. Si guardò però dal fare pubbliche dichiarazioni, limitandosi a esortare i fedeli a pregare per il re, che il 9 gennaio successivo si spense per una improvvisa polmonite. "Vide" nello stesso sogno la morte di Pio IX, che seguì un mese dopo la sorte del sovrano.
Non fu questa l'ultima sua profezia sulla casa regnante. Predisse, dopo la morte di Vittorio Emanuele, che i suoi eredi avrebbero tenuto lo scettro per tre sole generazioni, e non oltre.
Altre dinastie, oltre quella di Savoia, ebbero da Don Bosco impietosi pronostici sul proprio futuro. L'ex re di Napoli, Francesco II di Borbone, esule a Roma, che aveva voluto incontrarlo per chiedergli quando avrebbe riconquistato il suo trono, si sentì rispondere: «Voi non lo riavrete mai più il vostro trono, e nemmeno rivedrete mai più Napoli».
Scrisse di suo pugno, su di un foglio che si conserva presso l'archivio dell'istituto salesiano di San Severo, in Puglia, una profezia sulla fine degli Asburgo: «Quando l'aquila bicipite scenderà nella tomba, l'aquilotto sarà sbalzato dal trono».
La profezia risale agli ultimi anni di vita del santo. Era imperatore d'Austria-Ungheria Francesco Giuseppe. Sarebbe sceso nella tomba nel 1916, lasciando all'«aquilotto» Carlo appena il tempo di sedere sul trono per esserne sbalzato via.

Segnali di fuoco
Pur prediligendo la visione onirica, le profezie di Don Bosco trovarono anche altri modi per esprimersi. Famose rimangono le rivelazioni da lui avute attraverso il manifestarsi di lingue di fuoco in momenti di particolare tensione interiore. Gli accadde una volta, mentre era intento agli esercizi spirituali con alcuni devoti, di restare come paralizzato dopo avere recitato un De profundis e di vedere oscillare a mezz'aria sull'altare due fiamme simili a quelle ricorrenti nell'iconografia pentecostale. In corrispondenza dell'una era apparsa la scritta «apostasia», in corrispondenza dell'altra «morte». Dopo di che i due fuochi vorticarono in direzione dei fedeli raccolti in preghiera per poi fermarsi sul capo di due di essi: quello con la scritta «morte» sopra la testa di un aristocratico e l'altro su di un commerciante, noto per la sua profonda devozione.
Quest'ultimo, in un breve lasso di tempo, ebbe una crisi religiosa e abbracciò la fede protestante. Il nobile morì.
Una lingua di fuoco, allo stesso modo, fece riconoscere a Don Bosco un giovane francese, che non aveva mai visto prima, come un predestinato alla vita ecclesiastica. Questi si era recato nella chiesa di Maria Ausiliatrice per incontrarlo allo scopo di chiedergli consiglio sull'eventualità di farsi sacerdote, senza avergli però preannunciato la sua visita. Ma non appena Don Bosco lo vide, illuminato dalla mistica fiammella, lo trasse in disparte, rivolgendogli in francese le risposte che lui, senza avere ancora formulato alcuna domanda, si aspettava.
Questo giovane si chiamava Antoine Malan. Divenne salesiano, poi missionario e infine vescovo.
Tali episodi, per quanto stupefacenti, non ebbero comunque una speciale influenza sul riconoscimento della santità di Giovanni Bosco da parte della Chiesa, nel 1934. Furono infatti privilegiati, nel giudizio di canonizzazione, i suoi grandi meriti di educatore, che lo portarono a prendersi cura di migliaia di ragazzi poveri e disadattati, fondando per essi scuole professionali e collegi.2 Più degli aspetti mistici e visionari della sua personalità contò dunque, ai fini dell'aureola, la sua sensibilità sociale, che lo indusse tra l'altro a promuovere un'intensa attività missionaria in una nuova ottica umanitaria, come attività di servizio verso i popoli più bisognosi di assistenza materiale oltre che spirituale.
Le profezie di Don Bosco, in altre parole, sono da un punto di vista ecclesiastico un optional. Ci si può credere oppure no, dare loro una valenza miracolosa o considerarle come propaggine psicologica di una personalità ultrasensibile. Nell'uno e nell'altro caso non ne vengono scalfiti né accresciuti gli elementi sui quali la Chiesa (e la storia) ha fondato il suo giudizio.

Due pleniluni per un'«iride di pace»
Al di là delle tante premonizioni di interesse individuale, si attribuiscono a Don Bosco molteplici profezie di significato storico universale, che velano dietro un linguaggio fortemente simbolico indicazioni precise, atte a consentire il riconoscimento dei fatti e del periodo cui alludono. C'è una profezia piena di speranza per l'umanità, secondo la quale «il peccato avrà fine» e si aprirà un processo di pace destinato a concludersi con l'apparizione sul mondo di «un sole così luminoso quale non fu mai, dalle fiamme del Cenacolo fino a oggi, né più si vedrà fino all'ultimo dei giorni».
Quando? Un dettaglio indurrebbe a ritenere che il processo, destinato evidentemente a compiersi su tempi lunghi, sia già iniziato. E detto infatti nel testo del messaggio che «l'iride di pace» sarebbe comparsa sulla terra «prima che trascorrano due pleniluni nel mese dei fiori». Non è un fenomeno comune la concomitanza di due pleniluni in uno stesse mese, e l'ultima volta che si è verificato a maggio (il «mese dei fiori», dedicato peraltro alla Vergine, che Don Bosco amava con speciale trasporto) è stato nel 1988. In coincidenza cioè con i fatti che portarono alla disgregazione dell'impero sovietico, all'abbattimento del muro di Berlino e via dicendo, preconizzati oltre tutto nel secondo messaggio di Fatima.
Riferimenti al comunismo ricorrono in altre profezie di Don Bosco, quali quella detta "del cavallo rosso", nella quale si assiste all'irrompere di una diabolica bestia nell'oratorio, con un tale impeto da terrorizzare i ragazzi fino allora sereni e metterli in fuga. Era «un cavallo rosso che correva velocemente verso di essi, con criniera al vento, le orecchie diritte e gli occhi corruscati, correva così veloce da sembrare che avesse le ali».
In sogno il sacerdote si chiedeva se non fosse «un demonio sbucato dagli abissi infernali». Gli rispondeva una voce: «E un cavallo dell'Apocalisse».
La visione venne comunemente interpretata come una raffigurazione della «democrazia settaria» (è l'espressione usata dal biografo Lemoyne, già citato) che avanzava nel tentativo di imporsi «sui governi, sulle scuole, sui municipi e sui tribunali». La fuga dei ragazzi dell'oratorio era il segno della sua «opera devastatrice a danno dell'ordine sociale, della società religiosa, dei pii istituti e del diritto di proprietà privata».
Altre bestie in altri sogni assolvono a una medesima funzione simbolica. Una volta è un rospo gigantesco, contrassegnato anch'esso da un emblematico segno rosso. Un'altra sono i cavalli dei cosacchi che si abbeverano nelle fontane di San Pietro. È forse la più popolare delle immagini trasmesse alla posterità da Don Bosco, e non va naturalmente intesa in senso realistico. Quei cosacchi e quei loro cavalli -e il luogo nel quale si abbeverano - sono la metafora di qualcos'altro, che va oltre la paura fobica del comunismo, anche se in superficie rimane questa l'interpretazione più comune, spesso allo scopo di suscitare facili ironie.
Appare molto più plausibile che il veggente abbia voluto alludere in questo modo al decadimento della Chiesa contemporanea, intiepidita nelle sue tradizioni e nei suoi riti. Letta in tal senso, la profezia appare più verosimilmente rivolta a stigmatizzare - come altri oracoli non sospettabili di ambiguità o malafede, anche nell'ambito mariano -certe forme di cedimento ideologico e di compromesso da parte di un clero forse condizionato al suo stesso interno da striscianti pulsioni anticristiane.
Accredita tale lettura lo zelo con cui Don Bosco si fa portavoce di Dio, in altra profezia, contro l'inerzia di questi preti, pigri nella migliore delle ipotesi, corrotti nella peggiore: «Perché non correte a piangere tra il vestibolo e l'altare?... Perché non andate sopra i tetti, nelle case, nelle vie, nelle piazze e in ogni luogo, anche inaccessibile, a portare il seme della parola divina?...».
È la Chiesa della lotta contro il male, non dell'acquiescenza e del calcolo politico, che Don Bosco "vede" navigare in un apocalittico scenario marino, maestosa, bene armata, alla testa di una grande flotta, ma con il vento contrario, in una tempesta che «sembrava favorire i nemici». Fino a quando, ispirato dalla vista di una colonna contrassegnata dal nome di Maria Ausiliatrice e di un'altra sulla quale splendeva un'eucarestia, il comandante supremo pensò per battere il furore dei nemici di «convocare intorno a sé i piloti delle navi secondarie e tenere consiglio sul da farsi». Si diede quindi battaglia, e «il pontefice si pose al timone per portare la nave verso le due colonne». La lotta fu feroce e «molte navi avversarie sprofondavano nel mare», ma a un tratto «il pontefice resta ferito e cade con onore: sollecitamente soccorso, colpito per la seconda volta, ricade e muore». Ma mentre sulle navi dell'anticristo già si grida vittoria, subentra un nuovo pontefice, che «supera ogni ostacolo e guida la nave alle colonne», mentre i vascelli avversari si disperdono e affondano speronandosi a vicenda.
Si sono voluti cercare in questo epico sogno d'ispirazione millenarista, volto a descrivere la Chiesa degli ultimi tempi, aggredita ma infine trionfante, quanti più riscontri possibile sulla storia recente del papato e previsioni per quella futura. Si è tentato di riconoscere nella riunione con i comandanti delle navi gregarie il concilio Vaticano II, teso a imprimere una svolta decisiva nella conduzione della flotta; nel primo ferimento del pontefice l'attentato di Ali Agca, cui però dovrebbe seguirne un secondo, mortale, non necessariamente nei suoi stessi confronti ma del successore; nella colonna di Maria Ausiliatrice un riferimento alla M voluta per devozione mariana da Giovanni Paolo lI sul proprio stemma; nei venti e nell'azione violenta dei nemici le perturbazioni e gli ostacoli contro cui ha dovuto battersi e tuttora si batte la Chiesa di fine millennio. Tutto questo è però relativo. Ciò che conta è l'evidenza dei significati di fondo dell'affresco, che raffigura la comunità cristiana in lotta per la propria libertà e sopravvivenza, con giusta magnificenza di armi e di equipaggi. È una chiave per poter accedere al senso effettivo di altre profezie, all'apparenza banali.

«Distrazioni» e vita breve di Domenico Savio
C'è uno dei ragazzi di Don Bosco che, per essere stato come lui dotato di spirito profetico e per avergli lasciato un ricordo tale da indurlo a scriverne la vita, non può qui essere ignorato: è Domenico Savio, convittore nell'oratorio salesiano di Torino, morto nel 1857 all'età di quindici anni. Ciò che si sa di lui lo si sa principalmente dal maestro, che nel giro di due anni pubblicò sulle «Letture cattoliche» una commossa biografia dell'allievo, poi ampliata e ristampata più volte.3
La vita fu con Domenico prodiga, nella sua brevità, di estasi e momenti di grande beatitudine, nel corso dei quali ebbe visioni giudicate di notevole interesse da Don Bosco, esperto ineguagliabile in materia. Aveva reticenza a parlarne, chiamandole semplicemente «distrazioni».
Di una in particolare, però, espresse il desiderio che il papa venisse informato, trattandosi di una questione attinente la conversione al cattolicesimo di un intero paese. Lo confidò a Don Bosco, in questi termini: «Vorrei dire a Sua Santità, se potessi parlargli, di non smettere mai di occuparsi con particolare sollecitudine dell'Inghilterra, poiché Dio sta preparando un gran trionfo del cattolicesimo in quel regno».
Gli chiese allora il sacerdote su quali elementi fondasse questa convinzione, e Domenico, prima di rispondergli, si raccomandò che la cosa restasse tra loro. Avutane l'assicurazione, così rispose, fornendo una testimonianza tecnicamente preziosa per la conoscenza dei modi attraverso cui era solito scivolare dalla preghiera in estasi e dall'estasi in visione, fino a procurarsi una sorta di trance divinatoria: «Il mattino del 7 settembre scorso, mentre facevo il ringraziamento dopo la comunione fui preso da una forte distrazione, e mi parve di vedere una vastissima pianura, piena di gente avvolta da una densa nebbia. Camminavano come uomini che, avendo smarrito la via, non vedono più dove mettono i piedi. Questo paese è l'Inghilterra, mi disse qualcuno che mi stava vicino [Domenico è dunque parte, a questo punto, della sua stessa visione]. Mentre stavo per chiedere altre cose vidi il sommo pontefice, così come l'avevo visto dipinto in tanti quadri. Avanzava verso quella immensa turba di gente, maestosamente vestito, reggendo tra le mani una luminosissima fiaccola. E più si avvicinava, più la nebbia andava scomparendo a quel chiarore, così che gli uomini sembravano avvolti nella luce di mezzogiorno. Quella fiaccola è la religione cattolica, che deve ancora illuminare gli inglesi, mi spiegò l'amico...». E forse non è un dettaglio da poco la presenza in questo paesaggio visionario di un amico ignoto, che alla maniera di Virgilio spiega al viaggiatore estatico tutto quello che c'è da sapere sul luogo in cui si trova e sul fine ultimo della profezia. Questa conversazione tra Don Bosco e Domenico Savio si svolse nel settembre 1856. Sei mesi dopo, il 9 marzo dell'anno successivo, Domenico era morto, "distratto" anche nel trapasso da meravigliose visioni, che spirando gli fecero dire al padre, come per consolarlo dell'immenso dolore che mostrava: «Papà mio, sapessi che bella cosa io vedo mai...».
Il ragazzo se n'era andato senza poter realizzare il desiderio di comunicare a Pio IX il vaticinio sull'Inghilterra. Lo fece un anno dopo Don Bosco, suscitando nel papa curiosità e intenerimento.
La profezia può oggi leggersi nella prospettiva del disegno ecumenico verso il quale vanno sempre più orientandosi le chiese cristiane, ma anche in riferimento a una specifica crescita dell'attenzione anglicana, più volte manifestata in questi ultimi tempi, per la cattolicità romana.
Domenico Savio fu proclamato santo nel centenario della morte da Pio XII, che lo designò patrono degli studenti. è considerato nell'immaginario liturgico come "il capolavoro pedagogico" di Don Bosco.

1 Fondò nel 1854 la congregazione dei salesiani e nel 1872 quella femminile di Maria Ausiliatrice.   2 Illustrò i suoi metodi educativi nel saggio // sistema preventivo nell'educazione della gioventù (1877) dimostrando la priorità dell'azione preventiva su quella repressiva e l'importanza della formazione tecnico-professionale.     3 «Letture cattoliche», anno VI, fascicolo 11, 1859. Si ebbero le prime ristampe, corredate da numerose aggiunte, nel 1860 e nel 1861.