Renè Laurentin
DIO ESISTE ECCO LE PROVE
PIEMME POCKET
LE SCIENZE ERANO CONTRO DIO.
OGGI CONDUCONO A LUI. PERCHÉ? Parte
terza
Una nuova visione del mondo
Nel 1900, il razionalista che si affidava alla scienza
credeva di essere sul punto di raggiungere la meta:
«La scienza fisica forma, oggi, un insieme perfettamente armonioso, un
insieme praticamente compiuto», diceva Lord Kelvin di fronte all’Accademia Reale
delle Scienze (citato da Jean Staune in L’homme
face à la science, Criterion, 1992, p. 9).
Era inquietante questa radiosa sicurezza in un determinismo
privo di ombre, che si apprestava a conoscere e ad aver potere su ogni cosa,
poiché il determinismo seppelliva i valori umani e la stessa libertà, a
vantaggio di un sistema strettamente scientifico e tecnocratico, adatto a
scoraggiare l’uomo.
Lord Kelvin, a cui non sfuggiva nulla, tuttavia si inquietava
osservando: «due piccole nubi nere» oscurano
il cielo azzurro della scienza (ib., p.
12).
Quali erano queste piccole nubi di fresca data?
a)
Una, l’esperienza di Michelson e Morley (1881), che faceva cadere la teoria
dell’etere onnipresente nello spazio, portando Einstein verso la teoria della
relatività ristretta (1905) e poi di quella generale (1912-1917).
b)
L’altra, quella di Max Planck, il quale, nel 1900,
scopriva che l’energia emessa da un corpo riscaldato non aveva forma di corrente continua, ma di particelle discontinue, come i vagoni di
un treno: i quanti.
Con questo nome intendeva la più piccola quantità
possibile di energia, che viene tradotta in numero con una virgola seguita da
trentatré zeri prima della cifra indicata. Grazie a questa ipotesi, giunsero a
soluzione i vani sforzi compiuti durante il secolo scorso per spiegare l’energia
emessa da un corpo riscaldato, in funzione delle lunghezze d’onda e della
temperatura. La teoria di Planck, confermata sperimentalmente, permette di capire,
in modo particolare, perché un corpo riscaldato diventa luminoso (laddove non
c’è né fuoco né sorgente luminosa), e perché questo calore è, in successione,
rosso, poi arancione, quindi giallo e infine bianco; da cui l’espressione «al
calor bianco».
Un limite insormontabile
per la trasparenza scientifica
Queste due fondamentali scoperte, compiute all’alba del
XX secolo portarono a diverse e contrastanti sorprese:
1.
Nell’ambito
dell’infinitamente grande, la relatività confermò il determinismo. Lo rese più
misterioso, più difficile da immaginare, a dispetto degli sforzi pedagogici
fatti per familiarizzarci con questa scoperta matematica astratta. Essa, però,
spiegava alcune apparenti anomalie del determinismo. Oggi, permette di prevedere,
con secoli di anticipo e con una precisione al minuto, tutte le eclissi e gli
altri fenomeni regolari della gravitazione degli astri.
2.
Ma
nell’ambito dell’infinitamente piccolo — l'universo infinitesimale dei quanti — le cose vanno ben altrimenti.
L’infinitamente piccolo, per il momento, è individuato
nelle componenti dell’atomo: elettroni, protoni, neutroni...; questi ultimi
poi, sono composti di quark, a loro volta composti da subparticelle. Ma
nessuno può sapere se in futuro verranno scoperte delle componenti ancora più
piccole.
Comunque sia, nell’ambito dell’infinitamente piccolo
delle particelle, la ricerca scientifica, per la prima volta nella sua storia,
approda a incertezze assolutamente nuove e radicalmente insolubili.
Bohr e Heisenberg stabilirono che di queste particelle,
piccole e mobili, non si è in grado di conoscere contemporaneamente la velocità e la posizione. Com’è noto, per osservare un elettrone, occorre
proiettare su di esso un fotone che modificherà la sua traiettoria e la sua velocità.
E, più questo è piccolo, più l’atto della
misurazione lo perturba. Qui, la scienza deve dunque accontentarsi di
conoscenze probabili e la formula conosciuta come «relazione di
indeterminazione» (1927), a tutt’oggi non fa che trovare conferme.
Per Einstein era uno scandalo il fatto di non pervenire
a una conoscenza certa, a un’oggettività rigorosa, allo stesso determinismo.
Egli, infatti, era sicuro che l’uomo poteva giungere a conoscere i segreti
ultimi della realtà fisica che si trovano nell’infinitamente piccolo.
Consacrò invano la sua ricerca al tentativo di superare
questo ostacolo. Per ottenere ciò pubblicò, con i suoi collaboratori Boris
Podolski e Nathan Rosen, quello che è stato chiamato, con le iniziali dei loro
tre nomi, il paradosso EPR. Il tentativo posto in atto per superare questo paradosso, consisteva nell’aggirare
l’ostacolo. Egli proponeva ingegnosi metodi indiretti per conoscere alla fonte
l’impulso e la posizione di una particella.
Ma i suoi propositi furono smentiti dalle esperienze
condotte dal 1973 al 1983 da Alain Aspect, oggi direttore
dell’Ecole supérieure d’Optique di
Orsay.
E stato confermato che, a questo livello, l’osservazione
modifica la realtà.
Tutto ciò smentisce, nello stesso tempo:
a) il realismo ingenuo secondo cui le
particelle possiedono proprietà ben definite, indipendenti dall’osservazione;
b) il determinismo;
c) il dogmatismo scientista.
La scienza camminava verso la soppressione del mistero —
così credeva il razionalismo — e invece il mistero s’infittisce. La scienza progredisce:
ci spiega fenomeni sinora sconosciuti; li formula tramite equazioni, e in tal
modo risolve dei problemi. Ma c’è un punto ultimo che rimane inviolato,
rispetto a cui ogni tentativo di spiegazione rimane senza successo.
E nell’infinitamente piccolo delle particelle — che
frappongono al razionalismo un ostacolo insuperabile, ossia incertezze
insormontabili — che sta la chiave del sapere e la spiegazione che si cerca.
Questa morte dello scientismo, del suo determinismo, del
suo sogno di realizzare una scienza trasparente e quasi divina — una scienza
capace di accedere al segreto dell’universo — fu, per i premi Nobel che
vissero l’avventura dei quanti, «una sorta d’agonia», come scrive Paul Davies
nel suo libro Superforce, dove spiega
magnificamente la sconcertante novità scientifica:
«Per i fisici che
elaboravano la teoria, il carattere intangibile delle particelle quantiche
rendeva la situazione assai sconfortante. Negli anni Venti, la nuova meccanica
quantica sembrava un labirinto di paradossi».
Davies precisa questi
paradossi, discussi al più alto livello scientifico da Werner Heisenberg, Erwin
Schodinger, Max Born e Niel Bohr.
Un giorno, quest’ultimo
fece questa osservazione:
«Se un uomo non
è preso da vertigini quando apprende la meccanica quantica, è perché non ha
capito nulla di essa» (ib., p. 52).
Ebbe luogo una grande
battaglia per esorcizzare tutto questo mistero. Heisenberg stesso, nel suo
libro Fisica e Filosofia attesta
le angosce mortali di quegli scienziati:
«Mi ricordo di discussioni
con Bohr, che duravano ore, fino a notte fonda e che spesso si concludevano
nella disperazione; e quando poi uscivo nel vicino parco, mi ripetevo senza
posa la domanda: la natura può essere veramente così assurda, come sembrano
indicarci queste esperienze sugli atomi?».
Einstein espresse con onestà lo stesso malcontento e lo
stesso rifiuto. Disse infatti: «Non posso credere che Dio giochi a dadi con
noi!».
Al che, Niels Bohr rispose: «Non dire a Dio quel che deve
fare».
Di fatto, egli ha accettato ciò che Einstein non poteva
credere: che Dio «gioca ai dadi», nel senso che la sua creazione fa sì che il
rigore del determinismo perda di credibilità (cfr. ib., p. 52).
Tuttavia, Einstein era perseverante e tenace quanto mai.
A più riprese, egli credette di superare quel muro di incertezze. Non si
scoraggiò mai, neppure quando i suoi collaboratori si arrendevano.
Uno di loro, Ernst Strauss, racconta con queste parole
lo sforzo, vano, di stabilire una teoria del campo unificato:
«Ero completamente depresso
e mi domandavo: “Se l’apprendista muratore si sente così male dopo la caduta
dell’edificio, che cosa può provare l’architetto?”.
Ma, l’indomani mattina, arrivando
al lavoro, trovavo Einstem tutto eccitato e impaziente di continuare “Sapete,
ieri sera ho riflettuto, e mi sembra che l’approccio corretto sarebbe “
Era l’inizio di una teoria
completamente nuova, anch’essa.( buttata poi nel cestino sei mesi dopo. Ma
Einstein non si arrendeva, come non si era arreso per la teoria precedente»
(B. Hoffmann, Albert Einstein, créateur
et rebelle, citato da A. Valenta, p. 156).
Benesh Hoffmann, fedele assistente di
Einstein, aggiunge:
«Talvolta, nel corso del
lavoro, c’erano dei momenti dove, si era del tutto disorientati. In quel caso,
quando non si riusciva a superare l’ostacolo prendendo una decisione chiara,
Einstein diceva tranquillamente nel suo inglese pittoresco: I will a little tink
(vado a pensarci un pò’: non sapeva pronunciare le th). Poi, nel silenzio che improvvisamente si era fatto, camminava
lentamente, in lungo e in largo, o girava in tondo, senza smettere di
attorcigliare un ciuffo di capelli con l’indice.
Il suo viso assumeva un’espressione insieme
sognante, lontana e meditativa. Nessun segno d’angoscia; nessuna traccia
visibile della sua intensa concentrazione; nessun segno dell’appassionata
discussione appena conclusa. Nient’altro che una calma comunione interiore (...). I minuti passavano; poi, all’improvviso,
scendeva di nuovo sulla terra, con un sorriso sulla bocca e una risposta ai
problemi, ma senza dire nulla del suo ragionamento (ammesso che si fosse trattato
di un ragionamento) che l’aveva condotto a questa soluzione.
Però, morì senza essere
pervenuto a questa unificazione delle prime due forze: allora le sole da lui
conosciute».
P. Davies racconta un
momento-chiave di questo insuccesso: di fonte a Bohr,
«che era il principale difensore
della tesi secondo cui il flusso quantico è
irriducibile e inerente alla natura, Einstein lanciò numerosi attacchi
contro l’incertezza quantica, inventando con molta immaginazione esperienze
ipotetiche (esperienze di pensiero, come si dice), con lo scopo di evidenziare
una falla logica insita in tale tesi, che era quella ufficiale. Ogni volta,
Bohr contrattaccava, e distruggeva l’argomentazione di Einstein. Durante una
conferenza, che radunava i più brillanti fisici europei per parlare degli
ultimi progressi dell’ancora recente teoria quantica, ebbe luogo uno spettacolo
memorabile. Einstein si attaccò alla disuguaglianza di Heisenberg che collega
la precisione con cui si può misurare l’energia
di una particella, alla precisione con cui si può misurare l’istante in cui essa possiede questa
energia. Il dispositivo particolarmente ingegnoso che aveva immaginato,
misurava l’energia con precisione, misurandone il peso. La celebre relazione
E=mc2 attribuisce una massa m a una quantità E di energia, ed è
possibile misurare la massa pesandola3. Questa volta, Bohr si trovò
visibilmente in difficoltà (...). Appariva molto agitato, accompagnando Einstein al suo albergo.
Dopo una notte insonne,
durante la quale analizzò dettagliatamente l’argomento di Einstein,
all’indomani Bohr s’incamminò trionfante alla conferenza. Costruendo il suo
argomento contro la teoria quantica, Einstein (perbacco!) si era scordato
della sua teoria della relatività. In questa teoria, la gravità deforma il
tempo, e dal momento che la gravità è indispensabile per misurare un peso, non
è possibile trascurare questa modificazione. Bohr dimostrò che se si tiene
conto correttamente di questo effetto, l’incertezza ricompare» (P. Davies, Superforce, p. 53).
Non c’è più nessuna speranza
di ritrovare nell’infinitamente piccolo la precisa geometria
dell’infinitamente grande. Prosegue P. Davies:
«Nella
scala atomica, le cose sono assai diverse. L’ordinato comportamento dei corpi
macroscopici lascia il posto alla ribellione e al caos. Quelli che
abitualmente consideriamo oggetti solidi, si rivelano, nei fatti, un
fantomatico mosaico di energie palpitanti. L’incertezza quantica sta a
significare che non è possibile sapere tutto di una particella istante per
istante: se si tenta di farlo, (...) essa sfugge» (ib., p. 52).
Continua….