Tratto da: Le Grandi Profezie Autore Franco Cuomo
Newton & Compton Editori
Le sibille Seconda ed ultima parte
Gli Oracoli sibillini
Conservati nel tempio di Giove Capitolino fin dal VI
secolo avanti Cristo, tali scritti venivano consultati
dai sacerdoti addetti alla loro custodia solo in rare occasioni, quando momenti critici o difficoltà nelle
scelte di governo lo richiedevano. Da qui la loro valenza politica, oltre che
religiosa.
La consultazione, d’altronde, avveniva per ordine — e sotto l’autorità — del Senato. Che
dispose tra l’altro, nel 76 avanti Cristo, una spedizione per
ricostruire i libri andati distrutti
nell’incendio dell’83. La ricerca toccò le città di Cuma e di Eritre, facendo
sorgere il sospetto — tutt’altro
che infondato — che
la sibilla Cumana e l’Eritrea potessero essere una stessa persona.
E' realistico pensare che questi Oracoli
sibillini fossero stati redatti da più veggenti, di origine sia etrusca che
greca. Sembra comunque che vi fosse una certa unità nel loro stile,
rigorosamente in versi. Ma quella di esprimersi in forma poetica è una
caratteristica comune a tutte le sibille, che solevano generalmente
improvvisare i loro responsi in
esametri.
Di certo si può dire che non fossero testi di facile
decrittazione, essendo compilati in versi di significato ermetico, che per
esprimere concetti di senso compiuto dovevano essere variamente articolati tra
loro. Accresceva la difficoltà dell’operazione il fatto che la scrittura fosse
in parte velata dall’uso di caratteri oscuri o geroglifici.
Un’atroce morte era prevista per il sacerdote che,
violando la consegna, avesse consentito a dei profani di copiare i sacri testi. Ne dà notizia
lo storico Valerio Massimo,8 descrivendo con crudeli particolari
l’esecuzione del sacerdote Tullio, condannato alla stessa pena dei parricidi,
cioè affogato in un sacco, per essersi lasciato corrompere da un cittadino di
nome Petronio Sabino, permettendogli di trascrivere l’oracolo.
Non sembra però che condanne così feroci servissero da
deterrente contro i predatori del segreto oracolare, poiché di tali libri
ne circolarono sempre vari
esemplari a Roma, soprattutto in età imperiale. Il fenomeno raggiunse la
massima estensione sotto Augusto, che per arginarlo ordinò il sequestro e la
distruzione delle copie in possesso dei privati.
Ne vennero bruciate oltre duemila.
Al medesimo provvedimento dovettero ricorrere Nerone e
Giuliano l’Apostata, il quale li consultò poco prima di essere ucciso nel 363.
L’ultimo a ordinare di bruciarli fu Onorio, nel 408, mentre l’Impero si
sgretolava sotto la pressione di vandali e goti. Esecutore materiale della loro
distruzione fu Stilicone, che subito dopo venne ucciso.
Un ponte tra l’antica e la nuova religione
Le numerose trascrizioni dei libri
sibillini, che i divieti imperiali non erano valsi ad impedire, ne consentirono
la ricostruzione — sia
pure attraverso inevitabili manipolazioni — all’inizio dell’era cristiana, da parte di apologisti tendenti a dimostrare come gli
oracoli pagani avessero previsto l’avvento della nuova
religione. C’era del resto, negli oracoli attribuiti alle sibille, una visione
apocalittica della storia che non soltanto conferiva loro una ispirata
solennità ma trovava dettagliati riscontri nelle grandi premonizioni bibliche
sulla fine del mondo.
Vi si parlava di «giudizio finale del
grande Re», con impressionanti descrizioni della catastrofe che si sarebbe
abbattuta sull’umanità degenerata, in tutto e per tutto simile a quelle
raccontate dall’apostolo Giovanni e dai suoi precursori ebraici. Vi si
enumeravano segni celesti, soprattutto comete, preannuncianti cambiamenti
epocali. Vi si tracciavano spaventosi scenari di morte o rigenerazione, alcuni
dei quali, riferiti al passato, evocavano disastri come l’eruzione del Vesuvio
del 79, mentre altri, riferiti al futuro, potevano interpretarsi come conferma
(insospettabile, perché di fonte pagana) delle profezie conclamate dalla nuova
religione. Tanto da far dire a Clemente Alessandrino, primo dottore della
Chiesa, verso la metà del II secolo,
che le visioni profetiche delle sibille fossero da considerarsi anticipatrici
delle verità evangeliche.
Ciò che afferma Clemente dimostra in
tutta evidenza l’intento di rapportare lo studio delle Scritture alla cultura
dell’antichità, traendone avallo. «Imparate dalla Sibilla come rivelò Dio e le
cose future», incita nel suo Protrettico,9
che
in greco vuol dire appunto esortazione. «Leggete […} e troverete enunciate in grande rilievo e chiarezza
testimonianze sul Figlio di Dio, e su come muoveranno guerra molti re contro il
Cristo, odiandolo, e su quelli che diffonderanno il suo nome, sul loro martirio
e sul suo trionfo».
Altri santi e intellettuali cristiani
dei primi secoli, come Giustino, che testimoniò la sua fede con il martirio nel
165, e Agostino d’Ippona, che seppe rinvenire nella filosofia neoplatonica
elementi congeniali alla sua grande speculazione teologica, ebbero una rispettosa
considerazione per le sibille, distinguendo le loro sentenze dalla farraginosa
idolatria degli altri oracoli. Agostino è severo verso astrologi e indovini
nella Città di Dio, ma indulgente nei confronti di queste veggenti, che
mai si posero in contrasto con le verità di fede. Giustino, dal suo canto,
riconobbe loro un certo.merito per avere «confutato le falsità dei pagani» con
le loro predizioni sull’avvento del Cristo.
Diversamente da quanto accadde per le
predizioni di ogni altro indovino dell’antichità, quelle delle sibille furono
considerate dalla Chiesa credibili.
Determinanti per
la fagocitazione degli Oracoli sibillini da parte cristiana furono, come
si è detto, i passi riconducibili alla tradizione apocalittica, sia per i toni
che per i contenuti. Come dimostra l’ iterazione dettagliata dei riferimenti
alla «collera del grande Dio», ma anche alla gloria che ne deriverà per il
vincitore della battaglia finale.
Dio
darà un segno: una stella sfavillerà nel cielo terso, come una fulgida corona,
per più giorni. Sarà l’aureola della vittoria per cui gli uomini combatteranno.
La grande lotta condurrà infatti [il vincitore] alla città celeste. Ogni popolo
sarà impegnato in duelli immortali... Ma l’ignobile non potrà coronarsi
d’argento...
Le
calamità che affliggeranno gli uomini all’approssimarsi del giudizio sono le
medesime di ogni altra apocalisse:
[...] fame, peste, guerre. I tempi cambiano in un coro di
lamenti e fiumi di lacrime [...] Esplode una gran confusione anche tra i giusti e i
fedeli, allorquando le stelle dell’intero firmamento si mostrano a tutti in
pieno giorno, insieme al sole e alla luna, mentre il tempo incalza veloce [...] Una densa nube avvolge il mondo infinito,
da oriente a occidente, dalla mezzanotte al sole alto. Un fiume ardente di
fuoco scorre giù dal cielo sulla terra, causando rovine dovunque: ne sono
invasi gli oceani, l’azzurro mare, i laghi e le sorgenti, gli abissi dell’Ade
[il lessico sibillino è qui ancora quello della paganità grecoromana] e la
volta del cielo. I corpi celesti vanno in frantumi e si velano di nera
oscurità. Dal cielo precipitano in mare le stelle…
Fanno da contrappunto a queste immagini spaventose, negli Oracoli
sibillini cristiani, come in altre rivelazioni catastrofiche e nello stesso
messaggio di Fatima, echi di desolante dolore:
Guai
alle donne che quel giorno saranno incinte! Guai alle madri che avranno i loro
piccoli al seno! Guai a quelle che dimorano in prossimità del mare!...
E ai lamenti, alle implorazioni, alle
urla, inevitabilmente si mescola, come nelle Scritture, lo «stridore di denti».
A riprova dell’intento di evidenziare, da parte dei trascrittori cristiani,
l’analogia anche formale tra la profezia sibillina e quella biblica.
E di particolare significato, in
questa prospettiva, il fatto che anche l’apocalisse delle Sibille preveda,
oltre la soglia dell’orrore, la possibilità di una soluzione salvifica. A
beneficio non soltanto dei giusti, ma perfino di quei malvagi che, pentendosi,
imploreranno la misericordia divina.
[...] Qualcosa sarà concesso a quelle anime pie che supplicheranno l’onnipotente
incorruttibile Dio, che elargirà loro la salvezza dal tormento del fuoco e
dall’incessante stridore di denti [...] E le manderà lontano dalla fiamma che non si estingue, a
vita eterna e diversa, nella pianura dei Campi Elisi, oltre le onde agitate
dell’Acheronte...
Per questa loro sospensione tra
mitologia e rivelazione cristiana, le sibille hanno di fatto costituito nella
storia delle grandi profezie un ponte sull’abisso che separava i culti
dell’antichità classica dalla nuova cultura religiosa.
A conferma dell’effettivo interesse
suscitato nell’immaginario occidentale da queste figlie inquietanti della
paganità, depositarie di segreti connessi all’esercizio di pratiche esecrate
dalle Scritture come blasfeme, eppure accettate in funzione di un più avanzato
disegno escatologico, vi sono i capolavori di numerosi artisti che ne trassero
ispirazione per decorare cattedrali e santuari.
Primeggiano tra le grandi
protagoniste di questo insolito versante dell’arte sacra le cinque sibille
ritratte da Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina (la Persica, la
Libica, l’Eritrea, la Delfica e la Cumana) e le quattro affrescate da
Raffaello, senza nome, nella chiesa romana di Santa Maria della Pace. Furono
inoltre attratti dal fascino indecifrabile delle sibille Andrea del Castagno,
il Guercino, il Domenichino, il Pinturicchio, Guido Reni e tanti altri maestri.
Splendide sibille adornano coi loro
volti enigmatici il duomo di Siena (insieme a Ermete Trismegisto e Pitagora) e
le pareti della Casa di Loreto, uno dei più popolari centri del culto mariano.
Alla pari degli angeli e dei santi rientrano tra i motivi ricorrenti nella
pittura rinascimentale.
Sono perfino presenti nella liturgia.
Nomina una sibilla il canto sacro del Dies irae, introdotto nel
repertorio religioso da Innocenzo III, papa dal 1198 al 1216:
Dies irae, dies illa
solvet saeculum in favilla
teste David cum Sibylla.
È' un
richiamo alla fine del mondo, al giorno dell’ira e al secolo che si dissolve
nel fuoco, come testimoniano le Scritture (David) e la Sibilla.
Il vaticinio della ninfa Porrina sulla venuta di Rita da Cascia
Una profezia sulla
cui autenticità si possono nutrire molti dubbi, ma che dimostra comunque la
suggestione esercitata dalle sibille pagane sull’immaginario cattolico, è
quella che una gentile tradizione umbra indica come precognizione pagana della
nascita di Rita da Cascia, mistica e taumaturga tra le più venerate della
cristianità. E la profezia
della sibilla Porrina, vissuta in un
mitologico passato nella valle di Roccaporena, dove nacque sul finire del
secolo XIV Rita Lotti, destinata a divenire la “santa degli impossibili” per
gli straordinari miracoli che le vengono ancora oggi attribuiti, soprattutto
in fatto di guarigioni.
Aleggia tuttora sulla valle in cui
nacque santa Rita una sorta di indefinibile incantesimo, che una toponomastica
inquietante rende ancora più misterioso. Vi si accede da due gole dette Passo
Inferno e Passo Male. Sovrasta il minuscolo abitato di Roccaporena, in
corrispondenza di quello ch’era l’orto miracoloso di Rita, dove fiorirono
fichi e rose in pieno inverno, una maestosa caverna detta Grotta Nera, nella
quale i devoti oggi vanno a chiedere grazie. La fronteggia sul versante
contiguo la Grotta d’Oro, che si diceva fosse stata dimora della ninfa Porrina,
una indovina esule in Umbria dall’Arcadia, donde era fuggita con la sorella
Carmenta, anche lei dotata di poteri mantici, e con il figlio di quest’ultima
Evandro, sovrano scacciato dal suo regno di lirici pastori.
Entrambe si erano cercate in Italia
un sito adeguato al mistero che l’esercizio dell’arte profetica richiedeva:
Carmenta si era insediata con il figlio sul monte Palatino, l’altra nella valle
in cui sarebbe venuta al mondo qualche millennio dopo santa Rita.
A Porrina la voce popolare attribuiva
una profezia, di cui però venne trascritto il testo soltanto negli anni Trenta
di questo nostro secolo dallo storico casciano Adolfo Morini,10 che asserì di averlo letto su di un
manoscritto in possesso di un vecchio contadino, il quale però non volle
affidarglielo, consentendogli semplicemente di ricopiarlo a mano.
«Questa è la terra sacra indicatami
dal mio dio», diceva la sibilla, e ne anticipava i futuri splendori «fino alle
più lontane generazioni». Veniva poi la profezia vera e propria: «Correranno
venti centinaia di anni dopo di me, e da queste balze rocciose luminerà una
luce divina, ignota al mondo, cui curveranno il capo financo le fiere del
bosco: e sarà la seconda. Appresso altre cinque, da queste pareti granitiche
verrà alla luce una pietra preziosa, la margarita, che brillerà dopo
altre cinque ancora. E sarà la più grande, e supererà le terre e i mari,
perocché l’umiltà vincerà la vanità. Qui ancora accorreranno le genti tratte da
ogni luogo a osannare il Dio eterno, e questa angusta e misera valle avrà nome
eterno nel mondo».
Il senso del messaggio parrebbe
corrispondere all’intenzione di stabilire una continuità tra il retaggio
sacromagico del primordiale paganesimo italico, agli albori mitici della civiltà
romana, e la nuova grande tradizione cristiana, nella quale Rita è coinvolta
insieme ad altre «luci divine». Ditali presenze luminose l’Umbria è prodiga, ma
tra tutte la margarita è la più splendente, dice la sibilla, ed è
destinata a varcare con la sua fama mari e monti, richiamando pellegrini da
ogni angolo di mondo.
Non si può essere certi
dell’autenticità del manoscritto cui fa riferimento il Morini, ma è
significativo che ne valuti la data intorno alla prima metà del Seicento (agli
anni, cioè, del processo di beatificazione, che rappresentò di fatto il
riconoscimento del culto ritiano, già popolare) per la qualità della carta, il
carattere grafico e lo stile «ampolloso, eccessivamente prolisso».
La mancanza del documento, andato
smarrito dopo la morte del contadino, sempre che sia esistito, autorizza il
sospetto che la “scoperta” potesse rientrare nella politica culturale del
regime fascista, tendente a imporre ascendenze latine alle grandi tradizioni
popolari. Ricercando anche parentele o filiazioni dirette, laddove possibile,
tra i grandi santi cattolici e le deità romane.
Scrisse d’altronde il Morini che il
vecchio contadino aveva trovato il testo della profezia tra le carte ingiallite
di un gentiluomo morto cinquant’anni prima. Il che sa di romanzo popolare,
ingenuamente interpretato da perfetti archetipi — come il villano e il signore — di quell’Italia rurale e aristocratica che
la retorica dell’epoca prediligeva. Giustificano ulteriormente ogni dubbio
l’anno della pubblicazione (1933) e il carattere della rivista «Latina Gens»,
cui venne affidato lo scoop. Ma questo non toglie nulla all’effettivo
spessore di quella devozione popolare che il vaticinio, tanto più se falso,
esprimeva. Semmai dimostra il protrarsi in età moderna di quello che nell’antichità
è stato un atteggiamento ricorrente del potere politico nei confronti
dell’arte divinatoria: strumentalizzarne i responsi, o inventarli del tutto, a
supporto dei propri disegni.
Fine…
8 Valerio Massimo,
vissuto nel I secolo dopo Cristo, scrisse un trattato di detti e fatti memorabili
(Factorum et dictorum memorabilium, in nove libri), ordinando materiali
desunti da storici greci e latini secondo criteri d’ordine filosofico e
morale. Tra le sue fonti Varrone, storico delle sibille.
9 Tito Flavio Clemente, detto Alessandrino
(150~215 circa), rivolse tramite il Protrettico ai greci un
invito ad abbracciare il cristianesimo ai suoi contemporanei ancora
condizionati dalla cultura pagana. Lasciò anche un’opera di morale cristiana,
denominata Il pedagogo, più vari scritti contro le eresie.
10 Il Morini lo pubblicò sulla rivista «Latina Gens» nell’aprile 1933,
illustrando in un saggio (La leggendadi Roccaporena) le modalità del
ritrovamento.